Perché i cambiamenti climatici colpiscono i più deboli

Elly Schlein

Per capire quanto siano interconnessi le diseguaglianze e i cambiamenti climatici, basta guardare entro e oltre i nostri confini a chi sta pagando il prezzo più alto del riscaldamento globale. Sono i Paesi in via di sviluppo, che meno hanno contribuito a causarli. Entro i nostri confini vale lo stesso: a rischiare di essere più colpito dall’emergenza climatica è chi non può scegliere dove vivere, dove lavorare, quale aria respirare. Chi subisce sulla pelle la falsa contrapposizione tra diritto al lavoro e diritto a respirare un’aria che non faccia ammalare. Quante ferite aperte, come quella di Taranto, quanti luoghi a rischio e siti inquinati, da nord a sud. In Italia, poi, il fenomeno della povertà energetica riguarda oltre 4 milioni di famiglie, che non dispongono di risorse economiche sufficienti per scaldarsi d’inverno.

Le fasce più povere sono maggiormente esposte ai rischi climatici e ambientali, che si tratti degli eventi meteorologici estremi (perché hanno il doppio della probabilità di vivere in contesti fragili) o delle conseguenze di medio e lungo termine, come gli effetti nocivi delle emissioni climalteranti e dell’inquinamento sulla salute. Sono più colpite dai disastri poiché, avendo meno, rischiano di perdere tutto e di avere minori possibilità di recupero. Tutto questo non fa che peggiorare, in una spirale negativa, le loro condizioni materiali: i cambiamenti climatici aumentano le diseguaglianze. E autorevoli studi dimostrano che, nei Paesi dove sono maggiori le diseguaglianze, lo sono anche la produzione di rifiuti, il consumo di acqua e le emissioni di gas serra per persona. Un circolo vizioso che va interrotto al più presto.

Si fa largo sempre di più una nuova consapevolezza: gli sforzi per la giustizia sociale e per la giustizia ambientale debbono procedere di pari passo. Non si può lottare efficacemente contro le diseguaglianze se non si affronta al contempo l’emergenza climatica, che ne è insieme concausa ed effetto. E viceversa non si può attuare una vera transizione ecologica senza accompagnare in essa tutta la società, a partire da chi lavora e dalle fasce più fragili e più esposte, per non lasciare indietro nessuno.

Se tali argomenti si stanno diffondendo sempre di più, anche nelle istituzioni, è perché da tempo questa nuova consapevolezza si fa strada nelle piazze e nelle mobilitazioni, specie tra le giovani generazioni, che manifestano insieme negli scioperi per il clima e contro lo sfruttamento lavorativo, in solidarietà ai migranti e per la parità di genere, nei cortei dei Pride e contro il razzismo. Ci stanno indicando una via, ed è quella dell’intersezionalità.

Per sfidare il modello di sviluppo che produce e alimenta le diseguaglianze e al contempo sfrutta in modo insostenibile il pianeta, compromettendone l’equilibrio e minacciandone il futuro, bisogna fare esattamente ciò che si vede in quelle piazze: unire le lotte. Ad ascoltarle bene, queste mobilitazioni — che sono nate spontaneamente, fuori dai circuiti dei partiti — ci dicono molto di quel che manca all’offerta politica att uale. Ci dicono che nella società emerge una visione che tiene insieme le sfide cruciali su cui ci giochiamo il futuro: la transizione ecologica e la lotta alle diseguaglianze, per i diritti e il lavoro di qualità.

La politica, invece, è rimasta indietro e si ostina a dividere ciò che nelle piazze sta già marciando insieme. Esiste poi una politica della contrapposizione, che soffia sul disagio e alimenta tensioni, specie tra i più fragili, individuando un nemico al giorno come causa di tutti i mali sociali. Così, a quanti si sentono al margine e chiedono ascolto e prospettive per il futuro, può offrire qualcosa di molto più semplice di una soluzione: un capro espiatorio. Quella politica offre soluzioni semplicistiche a problemi complessi, raccontando un’antica bugia: che la risposta sia rinchiudersi dietro muri sempre più alti e in recinti sempre più stretti, la nazione, la città, fino alla propria casa, magari armati fino ai denti gli uni contro gli altri perché così si è «più al sicuro ».

Ma la società più sicura non è quella dei rinchiusi in casa, è quella che offre alle persone la consapevolezza, nel momento del bisogno, di potersi rivolgere alla porta accanto, affidare alla comunità intorno. Ridare fiducia nelle possibilità di migliorare la propria vita sarà il più potente antidoto all’odio che trova nel diverso il capro espiatorio più facile verso cui veicolare la paura di perdere tutto e la frustrazione. Per questo serve una politica in grado di spiegare con parole semplici la complessità, che abbia il coraggio di dire la verità alle persone. E chi fa politica, ancor più chi governa, ha la responsabilità di non alimentare le tensioni sociali che le diseguaglianze inevitabilmente producono, specie tra i più fragili, ma di agire sulle loro cause profonde, dando risposte commisurate ai diversi bisogni che le persone, le comunità e i territori esprimono.

La pandemia ci ha dimostrato con brutalità quanto il benessere altrui sia anche il nostro. Quanto la salute e la possibilità di vivere in condizioni dignitose per i più fragili, come le persone senza dimora e i braccianti che lavorano nei campi, siano interesse di tutta la comunità. Ci ha mostrato quanto il concetto di frontiera sia evanescente e, dunque, vana l’illusione nazionalista che chiudendo la porta sia possibile mettersi al riparo dai problemi che attraversano la società tutta. Sfide europee e globali esigono risposte europee e globali, condivise e solidali. È necessario unire le forze e unire le lotte, anche oltre i confini, se quel che vogliamo è cambiare le cose.

in “la Repubblica” del 15 febbraio 2022