Fine vita. Reticenza della politica, supplenza della magistratura

Vladimiro Zagrebelsky

Le distorsioni che ha subìto il sistema definito dalla Costituzione sembrano assestarsi senza resistenze, tra senso di necessità, rassegnazione, indifferenza. Eppure, si tratta di cosa grave, nel contenuto e comunque nelle modalità: come prassi accettata da Camera e Senato, da tempo, e ora all’ombra del Covid o del Pnr o di altro. L’elenco delle prassi instauratesi giustifica l’allarme. Sempre più il governo ricorre a decreti-legge (che entrano subito in vigore e vanno convertiti in legge dal Parlamento entro 60 giorni), che la Costituzione ammette solo “in casi straordinari di necessità e urgenza”. Il decreto-legge trasferisce al governo la funzione legislativa.

Le necessità della pandemia, grave e in continua evoluzione, spiegano certo il ricorso ai decreti- legge, ma il fenomeno della loro dilatazione risale ormai ad anni e si manifesta in ogni campo. La discussione in Parlamento frequentemente è impedita dall’uso che i governi fanno di maxi- emendamenti, che propongono in un unico articolo il testo che il governo desidera e su cui pone la questione di fiducia. La regola costituzionale del voto parlamentare su ciascun articolo è così aggirata, mentre l’eterogeneità del testo dell’articolo unico impedisce una votazione consapevole ed eventualmente differenziata. La previsione costituzionale del doppio esame da parte di ciascuna delle due Camere del Parlamento è di fatto cancellata, quando la seconda Camera si limita ad approvare rapidamente il testo prodotto da quella che per prima è intervenuta. I tempi strettissimi imposti al Parlamento limitano oltremodo la sua possibilità di intervenire sui testi di legge. Da anni ormai persino l’esame del disegno di legge finanziaria viene operato di corsa, sotto la minaccia di far scattare l’esercizio provvisorio. Sempre più le leggi invece che a Montecitorio e a Palazzo Madama si fanno a Palazzo Chigi, con o senza consultazioni con i rappresentanti dei partiti o dei sindacati. Può darsi persino che ormai sia meglio così, ma la Costituzione dice altrimenti e non è irrilevante che ci si distacchi da essa senza una discussione, una scelta consapevole e motivata.

La vicenda che si trascina in Parlamento, per una legge sul suicidio assistito, aggiunge un ulteriore esempio. Essa vede coinvolta anche la Corte costituzionale. In breve: la Corte avvertì il legislatore che la norma del codice penale che puniva chi aiutasse taluno a suicidarsi era incostituzionale, indicò il modo che riteneva adeguato a rimediare e attese inutilmente un anno perché il Parlamento provvedesse. Poi decise con sentenza in quale situazione dovesse trovarsi chi voleva por fine alla propria vita, perché la sua volontà potesse esser rispettata e quindi non punito chi gli prestasse aiuto. L’indicazione proveniente dalla Corte costituzionale è stata dettagliata su diversi piani, anche riguardando le procedure da seguire. Solo la mancanza di una esposizione separata in articoli la distingue da una legge. Infatti ora vi è chi chiede ai giudici che la sentenza venga applicata al proprio caso, come se si trattasse di dare esecuzione ad una legge. La Corte ha creato un sistema di limitato rispetto della volontà del suicida, adottandone uno tra quelli possibili e compatibili con la Costituzione. In effetti tra le indicazioni date dalla Corte non si coglie se ve ne siano di costituzionalmente vincolate o se l’esercizio cui la Corte si è piegata è solo il frutto della omissione da parte del Parlamento e della necessità di provvedere a disciplinare la materia rimuovendo una grave incostituzionalità. E ciò con lo strumento di cui la Corte dispone – la sentenza -, ma con uno dei contenuti che potrebbe scegliere il Parlamento – con la legge-. Tanto è vero che in un primo tempo la Corte aveva ritenuto che dovesse essere il Parlamento a provvedere. Era ciò che a lungo essa si limitava a fare, dichiarando inammissibili le eccezioni di costituzionalità che implicavano scelte politiche per riempire il vuoto lasciato da una dichiarazione di incostituzionalità, successivamente lanciando moniti che il Parlamento però lasciava cadere e poi ancora provvedendo essa stessa ad introdurre o modificare norme che il sistema normativo era adatto a ricevere. Più recentemente la Corte ha cessato di tollerare il perdurare di situazioni di incostituzionalità che il Parlamento non rimuoveva. Non senza problemi, però.

Ora, sul suicidio assistito, in Parlamento pare si ritenga impossibile separarsi dalla via indicata dalla Corte, se non lavorando sui dettagli (in senso restrittivo). Nessuna visione autonoma emerge e la sentenza della Corte viene usata come per indicare di chi è la colpa, ad opera di chi e dove va ricercata una soluzione che si sarebbe voluta evitare. Eppure, il Parlamento è lì per operare le sue scelte anche quando sono difficili, nel dibattito pubblico, assumendone la responsabilità. Così si dice in sede politica, quando si protesta per lo strapotere dei giudici. Ma in questo caso le scelte vengono volentieri lasciate alla Corte costituzionale. E non si tratta solo di una ulteriore distorsione rispetto ai rispettivi ruoli delle istituzioni di vertice della Repubblica. Ipotizziamo, come c’è ragione di credere, che nella impostazione di fondo e comunque per diversi aspetti specifici, la sentenza sia criticabile sulla base di considerazioni di costituzionalità, almeno per la irragionevolezza di talune previsioni. Se fossimo difronte ad una legge sarebbe possibile ottenere il controllo della Corte costituzionale. Ma così? La Corte è competente a giudicare le leggi e gli atti aventi forza di legge (i decreti-legge, i decreti legislativi), ma non le proprie sentenze, nemmeno con qualche acrobazia tecnica. E vorremmo immaginare che la Corte offra un controllo efficace su una legge fotocopia di quanto essa stessa ha indicato?

Sempre più si afferma una realtà istituzionale affannosa, sconnessa, non organizzata a sistema, lontana dal meditato disegno costituzionale.

in “La Stampa” del 17 dicembre 2021