Religione. La libertà nutrimento dello spirito. Il pensiero di Carlo Maria Martini

VITO MANCUSO

Perché il cristianesimo non è più affascinante per la gran parte dei giovani? Se lo chiesero a lungo due anziani gesuiti conversando tra loro a Gerusalemme fino a tarda notte e sviscerando il problema nelle sue molte questioni. Per esempio il più anziano a un certo punto disse: «La Chiesa degli ultimi decenni ha perduto molti giovani, mi chiedo come possiamo riconquistarli». Il risultato è depositato in questo libro, intitolato per l’appunto Conversazioni notturne a Gerusalemme, che, quando uscì nel 2008, fece molto parlare di sé in Italia e nel mondo forse proprio perché «di notte le idee nascono più facilmente che nella razionalità del giorno».

La causa principale di tale scalpore era l’identità dell’autore principale, di colui che rispondeva alle domande che a nome di molti giovani austriaci e tedeschi l’altro gli poneva. Oltre a essere uno dei più autorevoli studiosi di critica testuale neotestamentaria, egli era cardinale, era stato arcivescovo di Milano per 22 anni, a lungo papabilis, e rappresentava un punto di riferimento della spiritualità contemporanea per i fedeli di tutte le religioni e anche per molti non credenti.

Ponendosi la domanda sulla crisi crescente del cattolicesimo, Carlo Maria Martini e Georg Sporschill guardarono in faccia la situazione senza tentennamenti e per questo scelsero di dare a questo libro il seguente sottotitolo: Sul rischio della fede. Solitamente tale espressione viene intesa nel senso del rischio che la fede fa correre a coloro che l’abbracciano, come avvenne per esempio ad Abramo chiamato a lasciare la sua terra; in queste pagine però emerge soprattutto un’altra valenza di quel genitivo, ovvero il rischio che la stessa fede sta correndo a causa della progressiva decadenza che oggi nell’Occidente postmoderno sembra farla confluire nell’irrilevanza. Il rischio della fede nel Dio cristiano è di affievolirsi sempre più, fino a scomparire.

Martini ne era quanto mai consapevole, tant’è che alla domanda su cosa avrebbe chiesto a Gesù se ne avesse avuto la possibilità, rispose che prima, da vescovo, gli avrebbe domandato la ragione del divario tra la Chiesa e i giovani a causa dell’indifferenza di questi ultimi, e poi della crisi quantitativa e qualitativa del clero; ora però che aveva lasciato la guida della diocesi per limiti d’età specificava: «Preferisco chiedere e pregare che mi accolga e che non mi lasci solo».

Non senza trascurare i motivi di speranza, il libro elenca e discute le ragioni della crisi, per cui risulta come una specie di piccola summa delle inquietudini e delle prospettive della spiritualità cattolica. (…) Il principale punto critico è senza dubbio la Chiesa e il suo apparato che, secondo Martini, tende sempre più a comportarsi come spesso accade a quei malati che riducono l’intero mondo alla propria salute finendo per non vedere altro che se stessi: allo stesso modo la Chiesa tende a dare troppa importanza a se stessa e corre il rischio di porsi come assoluto, dimenticando di essere invece solo un tramite. Martini non nasconde la sua criticità: «Un tempo avevo sogni sulla Chiesa… oggi non ho più di questi sogni», affermazione ribadita nella sua ultima intervista concessa l’8 agosto 2012 proprio a padre Georg Sporschill insieme a Federica Radice Fossati Confalonieri, e pubblicata dal «Corriere» il 1° settembre all’indomani della sua morte: «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?».

Per comprendere a fondo il metodo che Martini applicava alla lettura della realtà e delle persone, è opportuno ricordare ciò che egli disse un giorno a proposito del suo motto episcopale in una conferenza presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma tenuta il 23 maggio 2002: «Il motto mio è: Pro veritate adversa diligere, cioè essere contento delle contraddizioni». Martini traduceva così il senso della frase che ventidue anni prima aveva scelto al momento dell’improvvisa nomina a vescovo di Milano da parte di Giovanni Paolo II, a cui egli aveva fatto di tutto per sottrarsi.

La frase è tratta da un’opera di Gregorio Magno intitolata La regola pastorale e normalmente viene tradotta «amare le avversità per difendere la verità», nel senso che la difesa della verità giunge a richiedere l’assunzione di incarichi spiacevoli per il soggetto, come era stato il caso di Gregorio, che non voleva diventare Papa, e come fu il caso di Martini, che non voleva diventare vescovo e lasciare i suoi amatissimi studi. Martini però giunse via via ad attribuire alla frase un altro significato, come affermò quel giorno a Roma: quello di essere contento delle contraddizioni. Ma in che senso si può essere contenti delle contraddizioni? Lo si può essere perché le contraddizioni demoliscono le certezze granitiche e stimolano il pensiero, e il pensiero libero e consapevole è la base vitale della più autentica spiritualità.

in “Corriere della Sera” del 29 novembre 2021