Il diritto di morire e l’arte di vivere

DONATELLA DI CESARE

Nelle parole di chi plaude alla prima volta in cui il suicidio assistito viene ammesso in Italia si avverte qualcosa di lugubre e stonato, incompatibile con il tema trattato: la morte di una persona, di un essere umano, di “Mario”. Non si capisce perché questioni etiche così delicate e profonde debbano essere ridotte allo scontro tra fronti avversi o consegnate a una scelta politico-pragmatica. “Finalmente!”, e si sottolinea la conquista. “Finalmente!”, e si inneggia alla libertà recuperata. Ma quale conquista? E soprattutto quale libertà – un concetto così abusato in questi tempi e così equivocato?

Se la libertà non è che l’autonomia del soggetto, pronto a rivendicare il proprio esclusivo diritto di scegliere, sulla propria sfera e la propria vita, allora, certo, anche la morte rientra in questa scelta. D’altronde il suicidio si dice anche libera morte. Tabuizzato nell’antichità, giudicato un reato in alcune epoche, il suicidio irrompe nella modernità. Così oggi non stupisce la posizione degli iperdomernisti, cultori della libertà intesa come “autonomia del soggetto”. Si fa largo l’idea che la morte non sia più un evento. Sarebbe, anzi, legittimo prenderla nelle proprie mani. In altre parole: la mia morte è il mio progetto, a cui do forma, e che non voglio affidare a nessuno. Come se ci fosse un’oscura istanza che impone la sofferenza inutile, un tenebroso tribunale da cui è lecito affrancarsi. Il suicidio assistito finisce per passare addirittura per una lotta di liberazione dai vecchi pregiudizi.

Le cose non stanno così. Al contrario, l’eutanasia istituzionalizzata e il suicidio assistito rientrano in una inquietante “tecnica del sé”, denunciata già da Michel Foucault, dove il soggetto è liberatore e liberato, giocatore e posta in gioco, carnefici e vittima. Per il suicidio assistito si dovrebbe parlare di una fine pilotata, resa più soft dal progresso della medicina, che però rischia di diventare un’arte di morire piuttosto che di vivere. L’ambivalenza di questo progresso non può essere trascurata né sottovalutata. Chi può non condannare l’accanimento terapeutico? E le terapie artificiali che costringono il malato a non morire? Questa tecnicizzazione estrema, che prolunga a dismisura la fase finale della vita, è l’effetto di quella smania di onnipotenza che contraddistingue l’epoca in cui siamo entrati. Diventa inaccettabile qualsiasi limite – anche, e tanto più, il limite estremo della morte. Ma questa stessa onnipotenza guida anche il gesto eutanasico, e la rivendicazione paradossale di far rientrare la propria morte in un programma calcolabile.

Siamo sicuri che qui la politica – come alcuni dicono – sia assente? Non è forse vero che il mostro della biopolitica sovrana sonnecchia proprio nell’ultima parola lasciata a chi muore, in quell’ultimo gesto che chiude la vita? Sarà sua la responsabilità – non di altri. La stessa biopolitica che lascia morire in mare i naufraghi, quelle scorie della globalizzazione, responsabili del proprio rischioso viaggio, è la stessa che con altrettanta spietatezza fa credere che la scelta estrema del malato terminale, ormai una vita di scarto, possa essere il suo compimento liberatorio. In tal senso c’è anche da dubitare che l’Italia sia davvero indietro, come si pretende.

Forse anche qui le cose stanno diversamente. È proprio grazie a una tradizione umanistica, ancora solida, diverso è qui il rapporto con la morte e con chi muore. Perciò non sarebbe accettabile che tutto si riducesse, come in alcuni paesi scandinavi, all’asettico gesto amministrativo.

in “La Stampa” del 26 novembre 2021

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