La Terra curata dalle ragazze. “Fridays for future”

MICHELA MARZANO

Obama ha avuto senz’altro ragione quando, dalla plenaria di Cop26, si è rivolto ai giovani chiedendo loro di «canalizzare in maniera costruttiva la frustrazione e la rabbia». Ma l’ex presidente degli Stati Uniti ha anche avuto torto, torto marcio, quando, citando di sfuggita Greta Thunberg, ha sin troppo superficialmente eluso il problema affermando: «Ora ce ne sono tante come lei». Anche semplicemente perché il modello dei giovani, soprattutto delle numerosissime bambine e ragazze, che stanno chiedendo da anni ai governi azioni concrete nella lotta contro i cambiamenti climatici è proprio lei, Greta.

È lei che ha dato vita al movimento Fridays for future ispirando Anna Taylor, la diciassettenne inglese che ha creato in Gran Bretagna un’importante rete di studentesse e di studenti interessati al clima, e Anula De Wever e Kyra Gantois, che hanno recentemente organizzato un’imponente marcia per l’ambiente in Belgio. È lei il modello di Nadia Nazar, cofondatrice del gruppo americano per la giustizia climatica Zero Hour. È lei che ha dato la forza e il coraggio a Vanessa Nakate, una ventiquattrenne ugandese, di rinfacciare l’altro giorno a Obama di aver promesso nel 2009 molti soldi, ma di non averli poi mai dati. I giovani sono stanchi di questa politica che non rispetta mai le promesse fatte. Stufi di parole cui poi, immancabilmente, non seguono i fatti.

E allora, anche se Obama è convincente quando spiega che l’urgenza della crisi climatica non è una corsa da 100 metri ma una maratona, pure loro, i giovani, sono più che convincenti quando pretendono fatti, e non più solo parole. Tanto più che, tra questi giovani, sono soprattutto le ragazze a farsi parte diligente. Dando così a noi adulti una duplice lezione: queste ragazze non solo ci sbattono in faccia l’indifferenza nei confronti del pianeta e l’egoismo con cui ci siamo comportati (e continuiamo a comportarci) nei confronti delle generazioni future, ma ci mostrano anche quant’è falso il pregiudizio secondo cui le donne, rispetto agli uomini, sarebbero più timide, meno sicure di sé e meno pronte a battersi sulla scena politica nazionale o internazionale.

Greta, Anna, Anula, Vanessa – per citare solo alcune di loro – incarnano quella capacità, che tante donne hanno sempre mostrato di avere, di essere resilienti, non nel senso che accettano e tacciono, ma nel senso vero e profondo del termine “resilienza”: affrontare e superare le difficoltà e le avversità della vita senza mai adattarsi alle situazioni. Che è poi il cuore della cosiddetta “etica della cura” che, nata negli Stati Uniti alla fine degli anni Ottanta per contrastare l’ultra-individualismo contemporaneo, si è posta come obiettivo quello di “riparare il mondo”.

Mentre i filosofi maschi disquisivano sulle caratteristiche esatte dell’autonomia, concettualizzandola spesso in termini di indipendenza, le colleghe donne si interessavano ai contesti relazionali all’interno dei quali ognuno di noi evolve imparando pian piano a convivere con le proprie fragilità. Gli esseri umani sono infatti vulnerabili e dipendenti gli uni dagli altri; e hanno bisogno che il mondo venga riparato, come spiega bene Joan Tronto, affinché ci si possa vivere nel modo migliore: “Quel mondo include i nostri corpi, noi stessi e il nostro ambiente, tutto ciò che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa a sostegno della cura”.

Attenzione, però, alle facili scorciatoie. Sarebbe un errore immaginare che le relazioni di cura siano uno specifico femminile. L’esigenza di cura, affinché il nostro mondo sia ancora vivibile per le generazioni future, è già iscritta all’interno del “principio responsabilità” del filosofo tedesco Hans Jonas. Quello che voglio dire parlando di Greta, Anna, Anula e Vanessa è solo che, ancora una volta, sono le ragazze e le donne che, partendo dal privato, si fanno poi promotrici di cambiamenti pubblici. Come se, a differenza dei maschi, avessero pian piano appreso il coraggio di esporsi in prima persona e di rivendicare la compassione. Una compassione che è presente in ognuno di noi, indipendentemente dal sesso o dal genere, ma che poi, per pudore o indifferenza, tanti uomini hanno imparato a cancellare o nascondere. Come se mostrare compassione fosse un segno di debolezza, mentre è sempre è solo grazie alla compassione che si trova la forza di prendersi cura del mondo e di ripararlo.

in “la Repubblica” del 10 novembre 2021

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