Origine ed evoluzione dell’universo. Le frontiere e i confini della scienza

PIERO BENVENUTI

Dovendo parlare dell’origine e dell’evoluzione dell’Universo, è importante sottolineare subito la grande separazione esistente tra questi due termini, sia dal punto di vista temporale sia da quello epistemologico.

Infatti, la domanda dell’Uomo sull’origine del Cosmo, ovvero di tutto ciò che ci circonda, è antica quanto l’Uomo stesso, come testimoniano i racconti mitici presenti in tutte le civiltà antiche. Oggi la domanda si ripresenta pressoché identica, anche se viene affrontata non più attraverso la pura riflessione, ma con il metodo scientifico moderno. Al contrario, l’evoluzione, come caratteristica essenziale della totalità della realtà sperimentale – il Cosmo – è una scoperta recente, che non ha ancora compiuto un secolo di vita. All’inizio del Novecento nessuno, nemmeno il grande Albert Einstein (1879-1955), poteva immaginare che l’Universo avesse una storia e che si fosse evoluto trasformandosi e passando attraverso fasi molto diverse nel corso di quasi quattordici miliardi di anni.

Analogamente i due termini origine ed evoluzione sono separati anche dal metodo con cui possono essere indagati: come vedremo, mentre la conoscenza della caratteristica evolutiva dell’Universo è frutto di una rigorosa applicazione del metodo scientifico, nel caso dell’origine, l’indagine esula dal campo di validità del metodo stesso e la risposta va quindi cercata affiancando alla Scienza altre vie conoscitive che, senza mai ignorare i risultati degli esperimenti e delle osservazioni, permettano di superarne i limiti.

Il cosmo degli antichi e la svolta del Sidereus Nuncius

Una premessa va anche fatta riguardo al Cosmo: infatti nel corso della storia la percezione di ciò che ci circonda si è modificata radicalmente in misura della nostra capacità di osservarlo.

È evidente che il Cosmo degli antichi era ben diverso da quello che oggi conosciamo, semplicemente perché essi lo potevano osservare solo con gli occhi, mentre oggi lo scrutiamo con strumenti sempre più sofisticati, operanti sia da Terra che dallo spazio a bordo di satelliti artificiali. Di conseguenza la cosmologia, ovvero il modello di Universo che l’uomo ha sempre cercato di immaginare, non poteva che costruirsi su ciò che l’uomo conosceva. Una considerazione che potrà sembrare banale e scontata, ma che ci permette di riflettere su tre fasi storiche ben distinte della cosmologia.

La prima, basata sull’osservazione senza strumenti, ha prodotto la cosmologia aristotelica e tolemaica, un modello geo- e antropocentrico, perfettamente descritto da Dante nella Divina Commedia, soprattutto nella terza Cantica. Una cosmologia che, sposata dalla teologia scolastica, offriva una collocazione logica e perfetta, nel tempo e nello spazio, all’Uomo, al Creato e al Creatore. In particolare, la netta e sostanziale distinzione tra la composizione caratteristica del mondo sub-lunare (quello della Terra e di tutto ciò che sta sotto il «cielo» della Luna) e l’empireo, proprio del Sole, della Luna, dei pianeti e delle stelle, evidenziava ancor più il ruolo centrale della Terra e dell’Uomo.

Nel 1609, Galileo Galilei (1564-1642) con il suo cannocchiale e le sue straordinarie scoperte inaugura una nuova era dell’astronomia, ma al tempo stesso distrugge inesorabilmente le perfette sfere cristalline della cosmologia aristotelica. Scompare la distinzione tra mondo sub-lunare e l’empireo e, soprattutto, si dissolve il confine rappresentato dal «cielo delle stelle fisse», il contatto quasi fisico con il Primo Mobile e quindi con Dio stesso:

e questo cielo non ha altro dove

che la mente divina, in che s’accende

l’amor che ‘l volge e la virtù ch’ei piove.1

L’Uomo è nuovamente assalito dallo sgomento di doversi confrontare con un Cosmo infinitamente più grande di lui e che, a differenza dell’epoca precedente, non riesce più a comprendere. Si apre un periodo durante il quale, nonostante i progressi nella costruzione di telescopi sempre più grandi e potenti e i successi della teoria della gravitazione universale applicata ai moti celesti, gli scienziati non riescono a ricostruire un modello cosmologico soddisfacente. Anzi, quando la nuova concezione newtoniana di spazio, come riferimento astratto, assoluto e illimitato entro il quale si svolgono nel tempo – anch’esso assoluto – i moti dei corpi, viene utilizzata per la descrizione del Cosmo, porta a dei paradossi2 .

Come vedremo, solo con l’avvento dell’astronomia spaziale, che ha permesso di osservare l’Universo in tutte le lunghezze d’onda dello spettro elettromagnetico, è stato possibile costruire e consolidare un modello cosmologico soddisfacente.

L’inizio della cosmologia moderna

Il cammino verso la cosmologia moderna, che potremo chiamare di precisione in quanto ancorata a dati sperimentali oggettivi e sempre più affidabili, è iniziato circa un secolo fa grazie a due grandi rivoluzioni, una teorica e una osservativa.

La Relatività Generale di Einstein

La prima rivoluzione è rappresentata dalla Teoria della Relatività Generale proposta da Albert Einstein nel 1916. Essa segue e completa la Teoria della Relatività Ristretta del 1905 che, partendo dal postulato della costanza assoluta della velocità della luce nel vuoto, aveva già rivoluzionato i concetti di spazio, di tempo e di contemporaneità, limitatamente a fenomeni fisici descritti rispetto a sistemi di riferimento inerziali, ovvero che si muovono relativamente uno all’altro di moto rettilineo uniforme.

La Relatività Generale supera questo limite affermando, secondo il Principio di equivalenza, che tutti i sistemi di riferimento in caduta libera sono localmente equivalenti per la descrizione di qualunque fenomeno fisico. Per chiarire visivamente il concetto, ricordiamo che un esempio di sistema in caduta libera è rappresentato dalla Stazione Spaziale Internazionale all’interno della quale, come è ben noto a tutti, gli astronauti «galleggiano» nella cabina apparentemente privi di peso.

Ciò è dovuto al fatto che sia la Stazione che gli astronauti e gli oggetti all’interno della cabina, muovendosi lungo la stessa orbita attorno alla Terra, si muovono tutti con la stessa velocità orbitale, risentono tutti della stesa accelerazione centripeta e quindi, mutuamente, non percepiscono la forza di gravità: la situazione è analoga a quella che si verificherebbe all’interno di un ascensore cui venisse recisa la fune che lo sostiene, con la differenza che nel caso della Stazione Spaziale la «caduta libera» perdura fintanto che la stessa rimane in orbita attorno alla Terra.

Le conseguenze del Principio di equivalenza sono drammatiche: non solo lo spazio e il tempo costituiscono il «continuo» inscindibile previsto dalla Relatività Ristretta, ma esso non può più essere considerato indipendente dalla materia ed energia, le quali ne modificano le caratteristiche interne, ovvero, in termini più tecnici, determinano la metrica dello spazio-tempo rendendolo localmente «curvo». In altre parole, la materiaenergia presente nello spazio-tempo ne determina la geometria e lo spazio-tempo così modificato definisce le traiettorie che i corpi e la radiazione devono seguire.

Dal punto di vista epistemologico è importante notare come il passaggio dalla Relatività Ristretta a quella Generale non era «richiesto» da alcun dato sperimentale che contrastasse in modo evidente con la meccanica newtoniana, se si esclude una piccola perturbazione dell’orbita del pianeta Mercurio che comunque veniva attribuita a una incompleta conoscenza del Sistema solare, piuttosto che a una inadeguatezza della teoria vigente.

Diversamente la Relatività Ristretta era nell’aria, tanto che le formule matematiche che permettevano di descrivere correttamente i dati sperimentali di fenomeni elettromagnetici osservati in sistemi di riferimento diversi, le trasformazioni di Lorentz, già esistevano, anche se erano state derivate empiricamente e non giustificate da una teoria. La Relatività Generale nasce quindi da un desiderio di simmetria e di completezza e le conseguenze, già citate, dovevano essere provate sperimentalmente a posteriori, per decidere se l’intuizione einsteiniana era ragionevole e giustificata.

Le prove sperimentali che avrebbero potuto provare o confutare la teoria non erano facili da realizzare perché gli effetti della Relatività Generale sono molto piccoli in condizioni «normali» di laboratorio, ma l’occasione si presentò con l’eclissi totale di Sole del 1919: durante la fase di totalità il cielo diventa buio e si possono vedere le stelle vicine al bordo del Sole eclissato, misurandone la posizione per verificare se sia diversa da quella usuale, per effetto del campo gravitazionale generato dal Sole. Le misure diedero ragione a Einstein e la nuova rivoluzionaria teoria entrò a pieno diritto nella Fisica3 .

Dopo la prova cruciale, Einstein provò ad applicare le equazioni della Relatività Generale alla totalità dell’Universo, ma con sua sorpresa la soluzione indicava un cosmo non stazionario, ovvero in contrazione o in espansione. All’epoca tutti, Einstein compreso, conoscevano un Universo statico, all’interno del quale stelle e galassie si muovevano, ma con moti individuali casuali, senza partecipare ad alcun moto globale e generalizzato.

Di conseguenza Einstein, convinto che le sue equazioni fallissero nella descrizione del cosmo a grande scala, introdusse una modifica ad hoc, aggiungendo la cosiddetta «costante cosmologica» il cui effetto era proprio quello di stabilizzare l’Universo rendendolo statico. Ma una sorpresa lo stava attendendo al varco…

La scoperta delle galassie e l’espansione dell’Universo

Nel 1920, appena un anno dopo la verifica sperimentale della Relatività Generale, gli astronomi si chiedevano ancora se alcuni oggetti «nebulosi» osservati con i loro telescopi fossero delle nubi di gas appartenenti alla nostra galassia oppure se fossero essi stessi delle galassie, composte come la nostra di una miriade di stelle, ma molto più lontane.

Nel 1922, l’astronomo americano Edwin Hubble (1889-1953), utilizzando il nuovo telescopio da 100’ di Mount Wilson, riuscì a dimostrare che la Nebulosa di Andromeda era una galassia simile alla nostra, distante circa 2,5 milioni di anni luce. Le dimensioni tipiche di una galassia sono dell’ordine delle centinaia di migliaia di anni luce, quindi Andromeda e le altre nebulose simili erano senz’altro oggetti extra-galattici. Improvvisamente l’Universo diventava molto più esteso di quanto si potesse immaginare e le «galassie» diventavano i veri «mattoni» del cosmo.

Contemporaneamente alla scoperta della natura delle galassie, si cominciavano a raccogliere dati sulla loro velocità radiale, ovvero di avvicinamento o allontanamento4 . Curiosamente le velocità erano quasi tutte di allontanamento e, fatto ancora più inatteso, crescevano proporzionalmente alla distanza della galassia osservata.

Mentre si accumulavano questi dati, un gesuita belga, fisico, Georges Lemaître (1894 -1966), pubblicava nel 1927, in lingua francese e in una rivista belga a diffusione locale, un articolo dal titolo: Un univers homogène de masse constante et de rayon croissant, rendant compte de la vitesse radiale des nébuleuses extra-galactiques. Egli aveva applicato le equazioni della Relatività Generale nella loro forma originale alla totalità dell’Universo e aveva ottenuto per primo un modello evolutivo che rendeva conto dell’apparente velocità di allontanamento delle galassie, crescente con la distanza. In un primo momento Einstein, discutendo con Lemaître del suo lavoro, l’aveva confutato quasi sprezzantemente, ma successivamente, quando ebbe modo di analizzare lui stessi i dati sempre più convincenti che Edwin Hubble continuava a raccogliere5 , si convinse che il nuovo modello cosmologico era il più adatto a descrivere l’Universo: tolse quindi la costante cosmologica dalle sue equazioni definendola il più grande abbaglio della sua vita.

Il modello cosmologico moderno

Con la scoperta della Legge di Hubble (si veda la nota 4) sulla apparente recessione delle galassie comincia a prender forma il modello cosmologico moderno, la cui principale caratteristica è la sua espansione e, conseguentemente, la sua evoluzione.

Bisogna subito mettere in guardia il lettore sulla corretta interpretazione del fenomeno descritto dalla Legge di Hubble: le galassie non si allontanano tra loro all’interno di uno spazio «contenitore», assoluto e indifferente alla loro presenza: ciò che si espande è lo stesso spazio cosmico che, per dir così, trascina con sé le galassie.

L’espansione dello spazio ha quindi anche un effetto sui fenomeni di propagazione della radiazione elettromagnetica (la luce): infatti, dal momento dell’emissione del segnale luminoso da parte di una galassia lontana, alla sua recezione sulla Terra è trascorso del tempo durante il quale lo «spazio» si è espanso provocando un «allungamento» della lunghezza d’onda originale. In altre parole, la luce proveniente da lontani oggetti celesti ci appare più rossa e questo spostamento verso il rosso (red -shift in inglese) è una misura di quanto lo spazio, e quindi l’Universo, si sia espanso.

L’Universo primordiale

Nel 1948, il cosmologo George Gamow (1904-1968), assieme ai suoi studenti Ralph Alpher (1921-2007) e Robert Herman (1914-1997), pubblica un lavoro sullo stato fisico dell’Universo primordiale basato sul fatto che retrocedendo nel tempo, cioè facendo scorrere all’inverso l’espansione, l’Universo doveva essere sempre più compresso, denso e di conseguenza caldo. Ad un certo punto avrebbe raggiunto temperature alle quali la materia ordinaria, elettricamente neutra, si sarebbe ionizzata: ioni positivi (nuclei di idrogeno ed elio ionizzati) e i loro elettroni liberi avrebbero costituito un fluido che i fisici chiamano «plasma» e di cui l’esempio più prossimo a noi è costituito dal Sole. Il plasma ha la proprietà di essere opaco alla radiazione elettromagnetica (la luce) che interagendo molto efficacemente con gli elettroni liberi, procede tortuosamente a zig-zag rimanendo intrappolata nel plasma stesso.

Gamow prevedeva quindi che l’Universo primordiale doveva esser opaco e non sarebbe stato possibile osservarlo direttamente oltre quella sorta di cortina invalicabile; per contro, l’espansione avrebbe successivamente raffreddato il plasma fino al punto in cui gli ioni positivi si sarebbero uniti stabilmente agli elettroni dando origine a idrogeno ed elio neutri6 , perfettamente trasparenti alla radiazione.

La radiazione, prima prigioniera del plasma, poteva ora liberamente propagarsi nell’Universo e si dovrebbe poterla osservare – affermava Gamow – ma, a causa del fenomeno del red-shift, essa sarebbe così spostata verso le lunghezze d’onda più lunghe da apparire come radiazione di microonde.

All’epoca non esistevano ricevitori in grado di osservare tale radiazione, quindi si concluse che non sarebbe stato possibile verificare sperimentalmente tale interessante previsione teorica del modello cosmologico.

La radiazione fossile

In questo i cosmologi dell’epoca si sbagliavano, perché con l’avvento dell’era spaziale e lo sviluppo della tecnologia delle trasmissioni radio, il Fondo Cosmico di Microonde (così è stata chiamata la radiazione «fossile» proveniente da quell’epoca primordiale) è stata osservato con precisione crescente da diversi satelliti astronomici7 , l’ultimo dei quali, PLANCK lanciato dall’Agenzia Spaziale Europea, è tutt’ora operativo.

La conferma e il successivo studio dettagliato dell’emissione del Fondo Cosmico, hanno consolidato sempre più il modello cosmologico ed oggi è possibile tracciare una storia dell’evoluzione globale del cosmo che copre quasi 14 miliardi di anni e si avvicina sempre più8 all’ipotetico «istante zero» che nell’opinione comune si identifica con l’espressione Big-bang.

Rimandando alle conclusioni finali la discussione sull’inizio della storia dell’Universo, se immaginiamo di contare lo scorrere del tempo dall’istante zero, il plasma primordiale si neutralizza, dando così origine all’immagine del Fondo Cosmico, a circa 300000 anni dall’inizio. Abbiamo detto che è solo in quella fase che l’Universo diviene trasparente, quindi le fasi precedenti sono impenetrabili all’osservazione diretta e non potremo mai «vedere» cosa è successo prima: com’è possibile quindi che il modello riesca a descrivere quelle fasi «invisibili»?

Riesce a farlo ipotizzando i processi che, sulla base delle nostre conoscenze della fisica delle particelle, potrebbero essere avvenuti e ne derivano le conseguenze sulle condizioni future del cosmo, quelle che diventeranno successivamente osservabili. Il confronto fra le predizioni teoriche e le osservazioni degli astronomi può confermare o confutare le ipotesi fatte sulle fasi primordiali.

La storia dell’Universo

In questo modo, come si è accennato, è stato possibile ricostruire una storia dettagliata dell’Universo le cui fasi salienti in questa sede elenchiamo senza approfondirle e senza illustrare le cause che le giustificano.

La primissima fase del modello che prevede una improvvisa espansione esponenziale dello spazio avvenuta circa 10-32 secondi dall’inizio (zero seguito da 32 zeri dopo la virgola!) che ha ingigantito l’Universo di circa 1050 volte (in questo caso 1 seguito da cinquanta zeri!). Questa fase è stata chiamata «inflazione».

Una fase di nucleosintesi primordiale: dopo circa 3 minuti dall’inizio, le condizioni di densità e temperatura del plasma (a quell’epoca formato solo di protoni, neutroni ed elettroni) sono tali da produrre per fusione nuclei di elio e tracce di deuterio, boro e litio. Il modello è in grado di stimare la percentuale degli elementi prodotti rispetto all’abbondanza dell’idrogeno, in particolare l’elio prodotto è circa il 25% del totale. Le osservazioni della composizione del gas intergalattico, che mantiene memoria della nucleosintesi primordiale, hanno confermato le previsioni.

La «neutralizzazione» del plasma, avvenuta circa 300000 anni dopo l’inizio, che, come già descritto, ha prodotto l’immagine del Fondo Cosmico a Microonde, osservato oggi con grande dettaglio dai satelliti astronomici.

La formazione delle prime galassie e quella delle prime stelle (forse avvenute contemporaneamente) per effetto locale della forza di gravità a partire da piccole perturbazioni di densità iniziali. Questa fase avviene circa un miliardo di anni dall’inizio ed è l’unica per la quale non vi sono ancora osservazioni: il telescopio spaziale successore di Hubble, James Webb Space Telescope, il cui lancio è previsto nel 2018, avrà come compito principale proprio quello di svelare la nascita delle prime stelle.

Le stelle così formate, soprattutto le più grandi, con masse pari a dieci-venti masse solari, sintetizzano al loro interno gli elementi pesanti, inesistenti nell’Universo primordiale. In particolare producono ossigeno, azoto, carbonio, silicio… ferro e oltre: tutto ciò di cui siamo fatti noi e l’ambiente che ci circonda. Questi elementi verranno poi ridistribuiti nel gas interstellare quando le stelle di grande massa, raggiunto il termine della loro «vita normale», dopo qualche centinaio di milioni di anni, esploderanno come supernove.

Le stelle e i pianeti

Il gas interstellare, da cui si originano nuove stelle e, come vedremo al prossimo punto, anche i pianeti, offre un ambiente favorevole alla sintesi di molecole semplici, come l’acqua, e complesse, soprattutto idrocarburi e catene aromatiche.

Osservazioni recenti da parte della sonda Rosetta della composizione del materiale di cui è costituito il nucleo della cometa 67-P hanno confermato che molecole organiche erano presenti nella nube proto-planetaria che ha dato origine al nostro Sistema Solare.

Le stelle di massa simile al Sole vivono molto più a lungo, oltre la decina di miliardi di anni, e la loro «produzione chimica» è limitata all’elio. Attorno a loro si formano dei dischi proto-planetari che in seguito daranno origine a sistemi di pianeti, del tutto simili al nostro. Il satellite Kepler della NASA ha recentemente scoperto migliaia di sistemi planetari orbitanti attorno alle stelle della nostra galassia, provando come la presenza di pianeti sia la norma e non l’eccezione.

Sappiamo poi che, almeno su un pianeta, la nostra Terra, l’evoluzione cosmica è proseguita come evoluzione biologica. Non sappiamo ancora quali siano stati i processi e le contingenze che hanno dato origine a questa nuova fase, né possiamo ancora stabilire se sia un fenomeno universale, diffuso in tutto l’Universo, oppure limitato alla nostra Terra, ma sicuramente possiamo affermare che l’evoluzione biologica è «figlia» dell’evoluzione cosmica.

Un’avventura non conclusa

Dopo quattro secoli dalle prime osservazioni di Galilei con il suo cannocchiale, l’Uomo ritrova finalmente una cosmologia soddisfacente che, pur con qualche tassello ancora mancante, riesce a inquadrare razionalmente tutte le osservazioni degli oggetti e fenomeni celesti. Rispetto alla precedente cosmologia aristotelicatolemaica c’è un’importante e inattesa novità: l’Universo ha una storia che si dipana nel tempo.

L’Uomo non è più al centro geometrico-fisico di un cosmo preparato per lui, ma è all’apice di una costante evoluzione della realtà fisica che, dopo quasi 14 miliardi di anni e proprio grazie alla comparsa dell’Uomo sulla Terra, ha acquistato coscienza di sé e della sua storia.

L’avventura non è però conclusa: quando tutto sembrava avere una collocazione logica nel modello cosmologico, ecco che i nuovi dati provenienti da diversi strumenti e programmi di osservazione, analizzati congiuntamente, hanno rivelato un’altra novità inattesa.

La materia cosmica che si manifesta attraverso l’emissione di radiazione elettromagnetica (luce), costituita da stelle, galassie, gas misto a polveri, rappresenta poco meno del 5% di tutto quanto esiste nell’Universo, mentre circa il 25% del totale è attribuibile alla cosiddetta materia «oscura», una componente che rivela la propria presenza grazie alla sua attrazione gravitazionale, ma che non è in condizione di emettere radiazione; al momento non sappiamo ancora se si tratti di materia «normale», ovvero composta di particelle elementari conosciute, oppure sia una forma completamente ignota.

Infine, il restante 70% è attribuito a una entità ancora più misteriosa, chiamata per il momento «energia oscura», responsabile dell’accelerazione dell’espansione cosmica, un dato osservativo derivante dallo studio delle stelle supernove9 nelle galassie lontane. Sono in preparazione molti progetti osservativi per cercare di determinare la natura e la distribuzione della materia oscura e dell’energia oscura, mentre i fisici teorici stanno cercando di capire l’impatto di queste due nuove componenti nel modello cosmologico.

Come si è visto, l’uso rigoroso del metodo scientifico moderno, alla cui base c’è sempre il dato osservativo sperimentale, ha permesso di ricostruire con fedeltà crescente la composizione e la storia di tutto l’Universo. Un’impresa conoscitiva formidabile, dall’esito entusiasmante e che ha dimostrato, da un lato l’efficacia epistemologica del metodo, dall’altro ha confermato l’intelligibilità razionale della realtà fenomenica: ogni novità osservativa, per quanto strana ed inattesa, ha trovato collocazione in un modello razionale, basato sui principi di causa-effetto e di non contraddizione. Non era scontato che così fosse e la coincidenza della nostra razionalità con quella che governa la realtà dei fenomeni misurabili non deve cessare di stupirci.

L’origine dell’Universo: occorre una razionalità «allargata»

Come accennato all’inizio e confermato ora, la Scienza può dire molto sull’evoluzione, ma cosa può dire sull’origine dell’Universo?

Distinguiamo subito tra due accezioni della parola «origine», quella semplicemente temporale, ovvero l’istante iniziale dal quale calcoliamo il tempo cosmico, e il significato più ampio di «arché», di fondamento, che risponde alla domanda: «perché esiste qualcosa invece del nulla?». In entrambe le accezioni, la Scienza, se vuole rimanere entro l’ambito epistemologico che essa stessa si è data, può dire ben poco. Per la prima accezione, l’istante zero dell’asse dei tempi, non può dire nulla perché, innanzitutto, non dispone (ancora) di una teoria soddisfacente che coniughi la quantizzazione della materia-energia con la struttura dello spazio-tempo della Relatività Generale. In altre parole, mentre sappiamo che la materia e l’energia sono «quantizzate», cioè costituite da entità (particelle elementari, fotoni) non ulteriormente divisibili, non sappiamo ancora se lo stesso avvenga anche per lo spazio-tempo, ovvero se sia infinitamente divisibile in intervalli spazio-temporali piccoli a piacere, oppure se oltre un certo limite si trasformi in una sorta di «schiuma» non ulteriormente divisibile.

Anche se questo dubbio venisse risolto, il metodo scientifico rigorosamente applicato, non potrebbe esplorare l’istante zero: infatti esso analizza gli eventi in base al principio di causa-effetto, studia quindi delle «mutazioni» (gli esperimenti) che avvengono «nel tempo»: a partire da alcune condizioni iniziali, in un istante successivo avvengono certi fenomeni che noi attribuiamo alle condizioni iniziali e a delle leggi fisiche operanti nel particolare esperimento. Ma l’origine dei tempi, per sua definizione, non può essere «preceduta» da condizioni «iniziali», proprio perché il tempo non esisteva. La filosofia e la teologia conoscono bene questo problema, esplorato in particolare da Agostino di Ippona e da Tommaso d’Aquino, e il metodo scientifico moderno, se applicato secondo la sua propria definizione, non può che prender atto della sua incapacità statutaria di esplorare ciò che non è una mutazione, un «esperimento». Dobbiamo quindi fermarci di fronte all’antica e fondamentale domanda sull’origine? No di certo, ma dobbiamo cercare una risposta utilizzando una «razionalità allargata», che ha sì alla base le solide conoscenze provenienti dall’applicazione del metodo scientifico, ma che si affida anche ad altre vie di conoscenza, le quali, senza mai abbandonare la ragione, utilizzano l’altra caratteristica che distingue l’Uomo: la libertà di credere e di amare.

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Piero Benvenuti (Si è laureato in Fisica nel 1970 presso l’Università di Padova e ha iniziato la sua attività professionale come Astronomo presso l’Osservatorio di Asiago nel 1970.
È stato responsabile scientifico, per l’Agenzia Spaziale Europea, del satellite astronomico IUE e del Telescopio Spaziale Hubble.
È stato Presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e vice Commissario dell’Agenzia Spaziale Italiana.
Attualmente è Professore Ordinario di Astrofisica delle Alte Energie presso l’Università di Padova dove tiene anche i corsi di “Storia dell’Astronomia” e di “Astronomia” per matematici. È Direttore del Centro di Ateneo di Scienze e Attività Spaziali “G. Colombo” dell’Università di Padova.
Si interessa attivamente del dialogo tra Scienza e Teologia. È docente del Corso “Creazione ed evoluzione” presso la Facoltà Teologica del Triveneto di Padova ed è Presidente del Consiglio Scientifico della Fondazione “Scienza e Fede” del Pontificio Consiglio della Cultura, di cui è stato nominato Consultore da S.S. Benedetto XVI.
È autore di oltre 150 articoli scientifici e di numerosi scritti divulgativi. Tra i suoi libri recenti sul tema Scienza-Fede:
“In saecula saeculorum – Il tempo della fisica e il tempo dello spirito”, Pharus Ed.
“Contempla il cielo e osserva – Un confronto tra teologia e scienza”, San Paolo Ed.
“Genesi e Big-bang – Parallele convergenti”, La Cittadella Ed.)

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Note

1 Dante, Paradiso, XXVII, 109-111

2 È noto il paradosso di Olbers che dimostra come il cielo di un Universo illimitato e popolato uniformemente di oggetti luminosi (stelle), dovrebbe essere luminoso sia di giorno che di notte.

3 Oggi i grandi telescopi, in particolare il telescopio spaziale Hubble, ci mostrano decine di immagini delle cosiddette «lenti gravitazionali», ovvero immagini di galassie lontane le cui forme ci appaiono deformate perché la loro luce, per arrivare a noi, è passata attraverso uno spazio curvato dalla presenza di un ammasso di galassie.

4 La velocità radiale di un oggetto celeste si può determinare abbastanza facilmente osservandone lo «spettro», ossia la scomposizione della sua luce, e paragonandolo a quello di sorgenti di luce note osservate in laboratorio. La velocità relativa tra l’oggetto e l’osservatore produce uno spostamento dello spettro verso il blu se la velocità è di avvicinamento e verso il rosso nel caso contrario di allontanamento. Il fenomeno, chiamato effetto Doppler, è ben noto.

5 Il lavoro di Lemaître venne successivamente tradotto in inglese e pubblicato su una rivista ad ampia diffusione, ma, per motivi non chiari, i riferimenti ai dati sperimentali, che esistono nella versione originale, vennero «censurati», mantenendo così solo la parte teorica. La relazione tra velocità e distanza delle galassie ha preso il nome di Legge di Hubble, ma dovrebbe invece essere chiamata Legge di Lemaître Hubble!

6 La composizione primordiale, costituita essenzialmente da idrogeno ed elio è anch’essa una conseguenza prevista dal modello cosmologico.

7 La prima ricezione di un segnale poi attribuito al Fondo Cosmico avvenne casualmente nel 1964 da parte di Arno Penzias e Robert Wilson mentre misuravano le caratteristiche di una nuova antenna per trasmissioni radio.

8 L’attuale modello cosmologico arretra fino a 10-43 secondi dall’inizio (zero seguito da 43 zeri dopo la virgola!)

9 Le supernove sono stelle di grande massa che esplodono alla fine della loro evoluzione. L’esplosione le rende momentaneamente molto brillanti, tanto quanto la luce emessa da tutte le stelle di una galassia. Sono quindi visibili anche quando esplodono in galassie molto remote e, avendo una luminosità assoluta nota, permettono di misurare la distanza della galassia madre.

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Questo testo è ripotato sul sito: http://emmeciquadro.euresis.org/mc2/frontiereconfiniscienza/frontiere-confini-scienza_benvenuti_10-2014.pdf