Migranti. Quelle complicità con Tripoli dei nostri governi occidentali

NELLO SCAVO

Domenica papa Francesco ha usato un argomento che le cancellerie europee preferirebbero non si citasse mai: «Respingimenti». Ha detto: «E quanto soffrono coloro che sono respinti!».

Aggiungendo: «Occorre porre fine al ritorno dei migranti in Paesi non sicuri e dare priorità al soccorso di vite umane in mare con dispositivi di salvataggio e di sbarco prevedibile», invocando «alternative alla detenzione, percorsi regolari di migrazione e accesso alle procedure di asilo».

La pratica dei ‘respingimenti’ nel Mediterraneo Centrale è stata inaugurata dall’Italia, che con Tripoli rinnova ogni due anni un ‘memorandum d’intesa’ i cui dettagli sono sconosciuti anche al Parlamento. Un esempio seguito poi da Malta che quattro anni fa ha firmato un accordo, a lungo rimasto segreto, che coinvolge anche contrabbandieri e trafficanti di petrolio nella gestione di una flotta di pescherecci che catturano i migranti in mare per restituirli poi ai campi di prigionia libici. Roma e Bruxelles, temendo di affrontare le ricadute politiche e giudiziarie nella violazione del ‘non refoulement’, il divieto imposto dal diritto internazionale riguardo al «ritorno dei migranti – come ha riassunto Francesco – in Paesi non sicuri», hanno invece preferito aggirare l’ostacolo confezionando e finanziando con denaro pubblico un’area di ricerca e soccorso di competenza libica. L’operazione, voluta nel 2017-2018 dal governo Gentiloni e confermata da tutti gli esecutivi arrivati dopo, consiste nella dismissione dell’intervento umanitario istituzionale per non incorrere nell’obbligo di soccorso.

Roma, Malta e Bruxelles (attraverso l’agenzia Ue Frontex) segnalano poi ai libici i barconi da catturare. Il respingimento, in questo modo, viene subappaltato a Tripoli. Un sistema che ha rafforzato i clan mafiosi locali, le cui milizie governative sono diretta espressione dei boss sul territorio. In cambio di cospicui finanziamenti (quelli noti si aggirano intorno al miliardo di euro, ma vi sono anche stanziamenti ‘riservati’) Tripoli cattura all’incirca metà dei migranti messi in mare, lasciando che migliaia di altri possano tentare di raggiungere le coste italiane. Un sistema che ha permesso di perpetuare l’ecosistema criminale: le milizie gestiscono i campi di prigionia ufficiali, praticano abusi ed estorsioni; sempre le milizie intercettano in mare una parte delle persone messe sui barconi dai loro affiliati. Ed è così che vengono ottemperati al contempo gli impegni con l’Europa e i patti tra i trafficanti.

Il 24 dicembre la Libia dovrebbe andare al voto per la prima volta dalla caduta del dittatore Gheddafi e dall’inizio della guerra civile nel 2011. La partita geopolitica regionale e le ripercussioni internazionali per l’approvvigionamento di idrocarburi, viene considerata prioritaria rispetto ai diritti umani (compresi quelli dei cittadini lbici). Ad oggi nessun Paese, Italia compresa, ha mai condizionato i bonifici in direzione Tripoli alla promessa di adesione alla Convenzione di Ginevra per i diritti dell’uomo.

Di tutto questo papa Francesco è al corrente, visti anche i suoi frequenti incontri con i vertici delle agenzie umanitarie Onu. Soprattutto Bergoglio sa che il ‘metodo Libia’ ha fatto scuola, e viene regolarmente applicato anche per i respingimenti violenti nei Balcani, nell’Egeo, nei Paesi dell’Europa Baltica.

Due settimane fa i profughi scampati ai campi di prigionia e accampati in segno di protesta davanti agli uffici Onu di Tripoli, si sono collegati in videoconferenza con l’incontro mondiale dei movimenti popolari in Vaticano.

Chiedono di essere evacuati in un Paese sicuro, preferibilmente in Africa. Ieri hanno di nuovo ringraziato Francesco, il quale ha chiesto «alla comunità internazionale di mantenere le promesse».

in Avvenire 26 ottobre 2021

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