Antropologia. Etica della responsabilità

GIANNINO PIANA

Il richiamo costante e pressante del Presidente Draghi alla coscienza e alla responsabilità personale ribadito con forza alcune settimane fa non può (e non deve) essere lasciato cadere.
La pandemia, che è (almeno si spera) in via di soluzione ha reso trasparente la necessità del ricupero di questa istanza, che può, a buon diritto, essere qualificata come una virtù fondamentale per lo sviluppo ordinato e pacifico della convivenza civile. Si è detto ripetutamente (e non a torto) che, soprattutto nella prima fase della diffusione del virus, gli italiani hanno dato prova (più di quanto non si potesse sperare) di tale attitudine, dimostrando, almeno nella stragrande maggioranza, un senso di disciplina e una osservanza dei dispositivi, anche gravosi, imposti dal governo.

È vero che a favorire tale comportamento ha senza dubbio concorso la paura di incorrere nell’infezione con effetti pesanti per sé e per gli altri, ma la speranza è che la consapevolezza della sua importanza, sia pure in una situazione del tutto particolare (e anomala), abbia consolidato la percezione della necessità della sua messa in pratica nei vari ambiti della vita sociale.
L’efficacia degli interventi strutturali che la politica deve fare propri per realizzare le riforme, di cui da tanto tempo si parla, è infatti strettamente legata (anche) alla cooperazione della cittadinanza, sia perché essa facilita il loro avvio – il consenso è una condizione essenziale per governare – sia perché rende possibile il perseguimento degli obiettivi che ci si propone di raggiungere.

L’importanza di una stagione dei doveri
La stagione che dall’ultimo dopoguerra si è aperta è quella dei diritti, dapprima dei diritti sociali – è questa la proposta più rilevante della Costituzione e della nascita del cosiddetto «Stato sociale» di matrice keynesiana –; poi di quelli soggettivi, che hanno man mano assunto il sopravvento.
Le spinte di carattere sociale che fino agli anni Settanta del secolo scorso hanno contrassegnato la coscienza collettiva – dal ruolo assunto dal sindacato alle rivendicazioni dal basso dei lavoratori – sono diventati la bandiera di una lotta, che ha portato giustamente all’affermazione di diritti sacrosanti, che lo Statuto dei lavoratori ha fissato con precisione, operando una svolta decisiva nel cammino verso la salvaguardia e la promozione della dignità umana.
La crisi della politica che è immediatamente seguita a quegli anni, accentuata dal fenomeno del terrorismo, ha determinato la fine della spinta sociale e il ripiegamento dell’individuo su se stesso, con l’emergere in positivo di bisogni e desideri legati alla sfera della soggettività, grazie al contributo di movimenti – in primo luogo quello femminista – i quali hanno concorso a dare spazio a tematiche come il valore delle diversità e la ricerca della felicità; ma anche con la caduta nell’autoreferenzialità che ha favorito forme di privatizzazione con gravi ricadute negative sugli sviluppi della vita collettiva.
A venire dimenticati o accantonati sono stati, per lungo tempo, i doveri, che pure altro non sono che l’altra faccia dei diritti, indissolubilmente ad essi connessa: quello che rivendico come diritto è infatti, a sua volta, dovere per me verso gli altri.
Questa stretta interdipendenza non è stata avvertita e tanto meno praticata, al punto di affievolirsi fino a venir meno nelle coscienze. La rivendicazione dei diritti, così come è avvenuta tanto sul piano sociale che su quello individuale si è unilateralmente sviluppata prescindendo dall’assunzione dei corrispettivi doveri, alimentando una mentalità fatta esclusivamente di pretese nei confronti delle istituzioni pubbliche, senza mai porsi il problema di che cosa andasse offerto ad esse in ricambio.

Le cause di questa situazione
L’assenza di questa sensibilità e di questo impegno partecipativo si è fatta sentire in diversi campi della vita sociale. A farne le spese è stato (ed è) anzitutto il Welfare che è stato (ed è) gestito in modo sempre più accentrato e burocratizzato dal potere politico – i pochi (e deboli) interventi di allargamento della partecipazione si sono presto arenati, sia per lo scarso decentramento del potere reale sia per la pesante interferenza della politica –; mentre si è fatta strada, a livello di massa, la convinzione che si tratti esclusivamente di poter accedere a servizi che sono un diritto di ogni cittadino, indipendentemente dalla sua condizione economico-sociale, e che è perciò dovere dello Stato assicurare.

La coscienza personale, alla quale si riferisce il richiamo di Draghi, rischia oggi o di essere interpretata in senso rigidamente individualistico, perciò privatistico, con l’esclusione pertanto di ogni motivazione di carattere sociale, o di venire svuotata di ogni radicamento interiore, grazie alla lettura che di essa fanno le scienze umane: da quelle psicologiche e sociali a quelle di marca più strettamente culturale fino, in tempi più recenti, alle neuroscienze. Si oscilla così tra una forma di soggettivismo, che non ha alcun interesse per l’ordine dei valori e per l’attenzione agli altri, e una forma (altrettanto pericolosa) di oggettivismo che, negando la libertà individuale, finisce per destituire di fondamento ogni responsabilità.
A questo si aggiunge (e non è cosa di poco conto) l’assenza di un forte senso della appartenenza alla nazione, e dunque la mancata coesione attorno ad obiettivi comuni che cementano i rapporti, facendo percepire la «cosa pubblica» patrimonio effettivo di tutti. Nonostante eventi fondamentali statu nascenti come il Risorgimento e la Liberazione, prevalgono tuttora gli aperti contrasti tra Nord e Sud del Paese, con forme di denigrazione reciproca, le pretese di egemonia di una parte del Paese sull’altra, i campanilismi, i familismi e le chiusure corporative. Sono note (e ampiamente studiate) le cause di questa situazione: l’Italia non solo, contrariamente ad altri Stati europei, ha raggiunto da poco l’unità nazionale, essendo stata a lungo il Paese delle signorie e dei comuni, ma ha anche conosciuto una grande varietà di dominazioni con l’importazione di tradizioni culturali diverse e non sempre tra loro compatibili. Il mancato interesse per la «cosa pubblica», considerata «cosa di nessuno», è anche legato a queste ragioni storiche e culturali, che hanno esercitato (ed esercitano tuttora) un peso determinante sulla formazione della coscienza del popolo italiano.

Le vie da percorrere per uscire dalla crisi
Molti e di natura diversa sono i passi che vanno fatti per uscire dall’attuale deriva.
Alcuni riguardano in generale i modelli culturali dominanti; altri sono più strettamente connessi alla specificità del «caso italiano». Sul primo versante – quello dei modelli culturali dominanti – fondamentale è la ridefinizione dei contenuti di termini come coscienza, libertà e responsabilità.
Di primaria importanza è anzitutto il ricupero di una concezione positiva della coscienza, cui va riconosciuta una vera originarietà, e dunque una precisa autonomia (sia pure limitata) rispetto ai condizionamenti che essa inevitabilmente subisce. Ma che deve soprattutto essere fatta uscire dalle secche di una interpretazione rigidamente individualista per acquisire una dimensione relazionale e sociale. A sua volta, la possibilità di esercizio della libertà va rivendicata con forza, sia pure riconoscendo che si tratta di libertà «situata» perciò parzialmente condizionata, la quale non può tuttavia identificarsi con una sorta di arbitrio individuale e che deve essere concepita come «libertà per», cioè come libertà positiva che assume i connotati di responsabilità verso l’altro e verso la complessità delle situazioni.
Alla base di questa visione vi è un’antropologia relazionale, fondata su una concezione dell’uomo come persona (e non come individuo), dunque come soggetto di e in relazione, la cui autocomprensione e la cui autorealizzazione non possono avvenire se non in rapporto con l’altro (gli altri). L’alterità non è pertanto una realtà esterna e del tutto accidentale; è qualcosa che appartiene al soggetto come elemento costitutivo della sua identità. Il che comporta che non si possa (e non si debba) allora considerare l’altro come estraneo, tanto meno come nemico, ma come un interlocutore quotidiano con cui collaborare per dare vita a una seria convivenza civile.
Se questo costituisce il fattore essenziale di carattere filosofico e culturale, capace di conferire il fondamento ultimo alla socialità, ripudiando l’individualismo e assegnando un punto di appoggio alla socialità come a componente essenziale di definizione dell’identità soggettiva, non può mancare anche un’attenzione particolare – è questo il secondo versante – a situazioni riguardanti il «caso italiano». La debolezza del senso sociale e di quello civico, che ha le motivazioni storiche ricordate, esige in primo luogo il rafforzamento del senso dell’appartenenza, con il superamento della pregiudiziale diffidenza degli italiani del Nord nei confronti di quelli del Sud (con punte che raggiungono talora forme di vero e proprio razzismo), con la valorizzazione delle diversità, e con la convinzione che i beni comuni, in quanto beni di tutti, esigono il coinvolgimento responsabile di ogni cittadino.
La partecipazione attiva alla vita pubblica, che è dovere morale di ciascuno, comporta il «sentirsi parte» (a questo si allude quando si parla di appartenenza) e il «prender parte», l’offrire cioè il proprio contributo alla crescita comune. La possibilità che questo si verifichi è strettamente dipendente dalla ricostituzione di un ethos culturale condiviso; in una parola, di una piattaforma di valori civili, che cementino il tessuto sociale, fornendo l’alimento vitale alle coscienze; alimento che è garanzia di una convergenza attorno ad obiettivi comuni. La cultura dei doveri e della responsabilità è, in definitiva, la risultante di un processo complesso in cui entra in gioco la costruzione di una mentalità e di un costume, che possono prendere corpo solo laddove i valori dell’uguaglianza e della dignità personale (di ogni persona), della giustizia, della gratuità e della solidarietà divengono i criteri di riferimento delle scelte personali e sociali.

A pochi giorni dal suo rapimento, in un famoso discorso al gruppo parlamentare della Democrazia cristiana, Aldo Moro ammoniva che, se alla stagione dei diritti non si fosse affiancata una stagione dei doveri, il futuro del nostro Paese sarebbe entrato in una situazione di grave pericolo.
Quanto questa intuizione anticipatrice fosse vera è oggi sotto i nostri occhi!

in “Rocca” n 20 del 15 ottobre 2021

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