Preminenza del bene dell’uomo sui poteri della scienza e le sue applicazioni

GIORGIO PARISI, Premio Nobel per la fisica, intervistato da LUIGI DELL’AGLIO

Il ponte che ricollega, dopo secoli di separazione, scienza da un lato e filosofia, etica e teologia dall’altro, Giorgio Parisi l’ha già attraversato: l’Università di Urbino gli ha conferito la laurea honoris causa in filosofia. Parisi, ordinario di Fisica alla Sapienza di Roma, applica ormai in tutte le sue ricerche un approccio interdisciplinare: in questa intervista rilasciata a «Vita e Pensiero» parla spesso da biologo, perché la scienza di oggi, e soprattutto quella di domani che avanza, non conoscono compartimenti stagni. Ha collezionato quasi tutti i premi e i riconoscimenti che uno scienziato può ricevere. Per la comunità scientifica internazionale, è da tempo – moralmente – un premio Nobel, perché in varie occasioni è stato proposto alle commissioni preliminari di Stoccolma.

Ma qual è, per Giorgio Parisi, la sfida intellettuale che la scienza combatte ogni giorno? Trovare l’algoritmo giusto. Sono infatti gli algoritmi sempre più geniali ad assicurare il progresso in tutti i campi, dalla biologia cellulare alla computer science, dall’industria ai servizi. Con gli algoritmi, si sviluppa quel settore della fisica moderna che si chiama meccanica quantistica e che a Parisi piace di più. La parola “algoritmo” deriva dal nome del matematico persiano al-Khuwarizmi (IX secolo d.C.) e significa “istruzione per la soluzione di problemi (difficili)”.

E nella conversazione con il fisico italiano emerge una folla di applicazioni pratiche di intuizioni (gli algoritmi, appunto) scaturite dallo studio di problemi apparentemente teorici o astratti. Due esempi. Come collocare i bagagli nel baule dell’auto, facendoceli entrare tutti? Come fare in modo che, dato un certo numero di persone – “simpatiche” e “antipatiche” – da sistemare in due pullman per una gita, in ognuna delle vetture vengano a trovarsi in maggioranza persone che stanno bene tra loro? Ma poi si passa ad algoritmi che aiutano a risolvere questioni molto più impegnative.

Un algoritmo è più calcolo algebrico o più logica di ragionamento? È matematica o filosofia? O entrambe le cose?

L’algoritmo è un procedimento, una serie di istruzioni. Ci sono algoritmi semplici e algoritmi complessi. Cercare il proverbiale ago nel pagliaio è un problema, e io posso risolverlo con due algoritmi. Uno consiste nel prendere ogni pagliuzza, agitarla e vedere se nasconde l’ago. Un altro consiste nel servirsi di un apparecchio cerca-metalli. Il secondo algoritmo è certamente più produttivo, ma richiede una conoscenza più specifica della questione (occorre sapere almeno che l’ago è di metallo e pertanto è sensibile ai segnali del cerca-metalli). Il successo di un algoritmo è la prova che si è veramente capito il problema, che si ha una conoscenza approfondita della materia. Un obiettivo inseguito da vent’anni, e ancora non raggiunto perché molto complesso, è trovare l’algoritmo che ci permetta di capire la forma tridimensionale di una proteina, se ne conosciamo la formula chimica. È una delle questioni cruciali per la biologia moderna. Le proteine sono lunghe catene di aminoacidi (ne hanno centinaia); nell’organismo umano appaiono ripiegate, hanno la forma di una sfera ma alquanto deformata. Il modo in cui sono ripiegate è sommamente importante per il loro funzionamento: determina quale parte della proteina sta all’esterno e quindi con l’esterno reagisce, e quale parte invece sta all’interno. La forma delle proteine è un dato importante. Le proteine si congiungono l’una all’altra quando le sporgenze di una combaciano con le rientranze dell’altra (per descrivere questo meccanismo, si ricorre alla metafora della chiave che entra nella serratura). Bene: si cerca di costruire un algoritmo che, data la formula chimica della proteina (cioè la sequenza di aminoacidi), sia capace di dirci qual è la sua forma.

Servirebbe per progettare farmaci?

Certo. E si sono fatti progressi. Si riesce a determinare la forma delle proteine più piccole, i peptidi; è relativamente facile. Ma non esistono ancora algoritmi efficaci per le altre proteine, anche se la soluzione si avvicina. Un altro campo particolarmente adatto all’intervento degli algoritmi è oggi la genomica comparativa. Moltissime specie hanno geni relativamente simili. Tra uomo e topo le somiglianze sono maggiori. Ma, se prendiamo l’uomo e la mosca, le cose diventano molto più difficili. Come si può lavorare, in questo campo, per acquisire conoscenza? È interessante capire quale funzione svolgono, nel patrimonio genetico dell’uomo, certi geni che esistono anche nella mosca. E viceversa. Naturalmente, questi geni nella mosca hanno una struttura molto diversa da quella che hanno nel Dna dell’uomo; ma, se io conosco un certo gene nell’uomo, e so come è codificato nel suo Dna, posso andare a cercare una sequenza di Dna simile nella mosca, per poi leggermi la proteina che obbedisce a quel gene.

Oggi la ricerca biologica è sommersa da valanghe di dati. Esistono algoritmi per facilitarle il lavoro?

Parliamo dei “chip a Dna” (Dna-chip). Sono chip, cioè oggetti piccolissimi (la parola chip vuol dire “patatina”), ma non sono a base di silicio. Su di essi vengono attaccati fino a 64 mila pezzi differenti, o meglio sezioni attive, di Dna. Ogni sezione riconosce una parte di una proteina. Allora, se si prende un gruppo di cellule e si “frullano” e poi si fanno passare sul Dna-chip, osservandolo al microscopio si può stabilire quante proteine erano presenti in quella cellula. In pratica: basta un Dna-chip per fare 64 mila analisi contemporaneamente. I Dna-chip non sono ancora entrati nella pratica medica.

Serviranno ad accelerare le diagnosi?

Saranno necessari per classificare meglio paziente e malattia, e per scegliere terapie mirate. Con i Dna-chip, in base alle strutture geniche e alle espressioni proteiniche, si potrà accertare una propensione all’infarto, e in tal caso al paziente verrà suggerito uno stile di vita rigoroso. Se si scopre che corre un alto rischio di ammalarsi di tumore al colon, il paziente sarà invitato a sottoporsi a una colonscopia ogni anno. Inoltre i Dna-chip potranno accertare l’effettiva risposta personale a un farmaco, cioè se questo è efficace oppure no. Ma anche accertare se il tumore è aggressivo o no, e perciò aiutare il medico a dosare meglio la terapia a base di chemio e radioterapia. Tutto questo, è chiaro, richiede un enorme sforzo della ricerca e un notevole accumulo di conoscenze.

Ma, per capire il libro della vita, bastano gli strumenti – in pratica il computer – di cui disponiamo?

Il genoma è molto grande, quello umano è fatto di tre miliardi di lettere. Per renderci conto delle difficoltà del genetista, immaginiamo di dover cercare, in un testo molto lungo, una frase che già conosciamo. Se la ricordiamo bene, parola per parola, va tutto in modo eccellente. Se invece la frase deve essere modificata con qualche parola in più o in meno, la ricerca diventa ardua. Ci serve un algoritmo abbastanza astuto, in grado di riconoscere che, per esempio, la parola “obiettivo” – scritta con una sola “b” o con due – è sempre la stessa parola. Un algoritmo in grado di capire che una stessa frase, scritta in italiano moderno e nell’italiano del Duecento, ha un unico significato.

Su quali algoritmi si sono spremuti le meningi i matematici?

Su quelli per decidere se un certo numero è un numero primo oppure no. Gli algoritmi più efficaci furono creati negli anni Venti e Trenta del secolo scorso.

Se gli algoritmi servono anche per fare meglio ciò che già si sa fare, quando verranno trovati quelli giusti per rendere Internet molto più utile agli utenti nelle loro ricerche?

Il web sarebbe certamente molto più utile se potessimo spiegare al motore di ricerca che cosa cerchiamo esattamente. Per esempio, uno studioso o un ragazzo intento in una ricerca potrebbero mostrargli una lista di 50 articoli di fisica (per fargli capire che cos’è un articolo di fisica) e poi chiedergli di cercare la parola “algoritmo” in tutti gli articoli di fisica che trova in rete. In altri termini, il motore di ricerca, leggendo i 50 articoli di fisica che gli vengono mostrati, dovrebbe estrarne lo stile per poter poi scegliere in tutto il web soltanto gli articoli di fisica. La formula potrebbe applicarsi alle opere letterarie, per esempio per trovare tutti i sonetti con le parole “tanto gentile” (incipit del famoso sonetto dantesco). Dev’essere possibile istruire il computer con un algoritmo che riconosca automaticamente l’autore di un testo. Servirà agli studenti, ma sarà prezioso anche per risolvere questioni di attribuzione di testi antichi. L’analisi dello stile può essere risolutiva in un contesto letterario quando l’autore è incerto, oppure è incerta la datazione (si potrebbe chiedere al motore di ricerca di datare le commedie shakespeariane in base all’evolversi dello stile). Ma, ripeto, gli algoritmi sono indispensabili in tutti i campi. Per esempio, per controllare il traffico nelle metropoli.

Finora non sempre i calcolatori sono riusciti a evitare ingorghi mostruosi.

Oggi gli autobus fanno percorsi fissi, e il sistema è scomodo per gli utenti: bisogna raggiungere la fermata più vicina e poi il bus non ci porta quasi mai accanto al luogo di destinazione. Con un algoritmo indovinato, il calcolatore potrebbe dare istruzioni a ogni autista dicendogli dove andare, a quale fermata raccogliere le persone. I percorsi verrebbero cambiati in base alle richieste che in quel momento vengono dagli utenti. Naturalmente il sistema deve essere in grado di capire qual è, in ogni istante, la soluzione migliore, perché le richieste degli utenti potrebbero risultare contraddittorie.

Pierre-Gilles de Gennes, Nobel per la fisica nel 1991, votatosi alle neuroscienze, vede profilarsi, nel prossimo futuro, l’accoppiata cervello-macchina a vantaggio dei disabili ma intravede anche prospettive inquietanti. La società del futuro potrebbe ritrovarsi strutturata in rigide caste, con masse di esseri umani condizionati in seguito a modifiche praticate al loro cervello.

Per il breve periodo, sono più ottimista di Pierre-Gilles de Gennes: c’è una forte barriera, una resistenza incrollabile davanti alla pretesa di toccare il cervello dell’uomo. Almeno nella prima fase, le neuro-scienze si limiteranno a tentare di ridare all’uomo le facoltà perdute in seguito a incidenti, malattie o vecchiaia. Poi che cosa può succedere in una seconda fase è molto difficile prevederlo. Ciò che vediamo come un rischio, forse non accadrà; e invece non immaginiamo neppure le prospettive più probabili. Basta pensare che le tendenze vincenti non vengono quasi mai previste. Sei-otto anni fa, chi avrebbe detto che l’80-90% del traffico su Internet sarebbe stato prodotto dalle persone che si scambiano film o dischi o immagini?

Non crede che, per mezzo di certe tecnologie non più fantascientifiche, possa essere gravemente limitata la libertà di pensiero?

Nella nostra società organizzata, le scelte da compiere sono molto meno numerose di quelle che si presentavano davanti all’uomo in una società contadina. Oggi, come allora, chi si ubriaca sa a quali limitazioni della propria autonomia cognitiva va incontro. Idem per chi prende psicofarmaci. Le cose cambiano quando non siamo noi a decidere di prendere sostanze che modificano il nostro libero comportamento, ma sono altri, per esempio la pubblicità o i medici. Emblematico è ciò che sta accadendo negli Stati Uniti. Lì è stata introdotta la sindrome del “bambino irrequieto”, che da noi non ha alcun valore scientifico: si tratta del bambino che non sta attento a scuola, caso molto frequente e non patologico. Negli Stati Uniti, questo bambino viene ora curato con psicofarmaci. Non è malato, non può decidere, e gli viene imposta una cura a base di sostanze psicotrope.

Dove va la fisica e dove sta andando la società?

La fisica va abbastanza bene, mostra grande apertura e disponibilità a integrarsi con le altre scienze. Il mondo sta peggio. L’uomo non è cambiato, ma la cultura è cambiata con il tempo. In quest’ultimo periodo, abbiamo assistito a un gran numero di guerre che, con un po’ più di comprensione, intelligenza e buona volontà, potevano essere evitate. L’umanità non si sta mettendo sulla strada di uno sviluppo sostenibile.

Perché è indispensabile che scienze da un lato, filosofia e teologia dall’altro si tendano la mano?

In un mondo che è sempre più dominato dalla scienza e dalla tecnologia, chi deve prendere decisioni per la collettività rischia di decidere alla cieca. Ma il dialogo è necessario (e vantaggioso) anche per lo scienziato. Più vasto è il suo background culturale ed etico, meno limitato si sentirà l’uomo di scienza quando deve proporre soluzioni nuove. Se si lancia questo ponte tra le due culture, lo scienziato ascolterà i suggerimenti che gli vengono dai campi non scientifici. Sarà sempre più consapevole di dover lavorare per l’uomo come persona, e non per soddisfare la propria ambizione.

In Vita e Pensiero, 09.10.2021

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