“Da qui non vado via” La resistenza del Curdo che reinventò Riace

Alessia Candito e Giuseppe Smorto

C’era un tempo in cui lo chiamavano “il curdo”, un tempo in cui stampò la moneta di Riace, e un altro quando Fortune e Wenders si accorsero di lui. Poi c’è stato il tempo del rimpianto, per i migranti caricati sui bus, per i giovani del paese costretti a partire. Perfino per la fiction con Beppe Fiorello mai andata in onda.

Mimmo Lucano, sognatore, divisivo, diligentemente seduto in tribunale dietro gli avvocati che lo hanno assistito gratis. Perché di sicuro non bada ai soldi e una volta sulle scale del Villaggio Globale ha mostrato il conto della sua banca, e c’erano 9 euro. «Non ho vizi, mi accontento di poco».

Il Villaggio è una specie di corte che sta nel paese vecchio, ormai di nuovo desertificato, dove resistono una quindicina di famiglie straniere, un paio di laboratori, e c’è la moglie dell’ex maresciallo, la maestra Emilia, che fa lezione ai bambini. Siriani, ghanesi, pakistani, etiopi. C’è Carla, tedesca, che ha comprato i locali delle ex Poste e vuol fare una biblioteca. E una signora anziana s’è rotta il femore e ha detto: prendete voi la casa di tre piani, tanto io non ci posso più salire. Lì è tornato ieri sera Mimmo Lucano. Al mattino aveva detto d’istinto: «È tutto finito». A sera, rimette insieme tutto, l’onda di solidarietà, i social impazziti di like e di odio: «Sono i tribunali ad emettere le sentenze, ma c’è anche la strada, la gente che giudica le tue azioni. Possibile che si stiano sbagliando tutti quanti?».

Come tanti paesi calabri, Riace è fatto di una marina disordinata, di un mare di sabbia dove il sub romano Stefano Mariottini ritrovò quasi 50 anni fa i Bronzi. A sette chilometri dal blu, un centro storico silenzioso di pietra antica, dove ora resistono due bar e uno spaccio etnico. Tutto cominciò con una nave di curdi portata dal vento, nel ’98. Il vescovo di Locri Giancarlo Maria Bregantini e Lucano procurarono coperte e cibo, e un ragazzo che si chiama Hassan disse: «Questo è un paese di case senza gente, noi siamo gente senza case». La chiesa aprì anche la Casa del Pellegrino. Era allora Lucano un tecnico di laboratorio; nel suo pantheon Pier Paolo Pasolini, i teologi della liberazione, e un professore del Pci di Rosarno, Giuseppe Valarioti, ucciso dalla ‘ndrangheta.

Il modello Lucano, definito “encomiabile” ha portato anno dopo anno vita e lavoro, fino a quando Viminale e inchieste non lo hanno ridimensionato. Riace è arrivato ad avere 800 stranieri integrati, era un passaparola, era un Festival, un film, una location, era un bambino di otto anni di nome Ramdullah che a 8 anni fu nascosto dai fratelli nel cassone di un camion, dopo una bomba talebana. E si fece Iran, Turchia, Lampedusa, Crotone e infine Riace. Al tempo delle elezioni comunali, Ramdullah pregava davanti al seggio. Ora ha vent’anni e vive in Norvegia dal padre, che lo riconobbe in un video. E l’ex sindaco ricorda sempre che c’è stato anche un tempo in cui il prefetto Morcone lo implorò di accogliere altri 350 migranti, insieme ad altri paesi della zona, perché al Nord c’era allarme sociale: «Sa com’è, Milano ne prende solo 20». E arrivarono otto pullman. Lui non ha detto no, sarà stata quella la sua colpa? L’ingrato mestiere del sindaco, firmare e non capire, nel suo caso firmare per dare. Ostinato, testa dura, insofferente, mai solo. «Tornassi indietro, magari cambierei qualche compagno di strada».

Avrà sbagliato? Il sociologo Tonino Perna, ora vicesindaco a Reggio, che costruì con lui il modello economico di Riace, dice che ieri è nato il reato di umanità, peggiore dell’omicidio, della corruzione, del narcotraffico. Lucano ha pagato a livello personale, la sua famiglia si è spaccata. «Mi hanno scritto in tanti — politici, sindacalisti, gente comune — ma il messaggio più gradito è stato quello di mia figlia. Ha scritto “Forza Papà”. Sono preoccupato per loro, rientrano nel tritacarne mediatico, ora vivono tutti lontano da qui, li cercheranno di nuovo, l’hanno pagata più di me. Abbiamo passato momenti difficili, ora ci siamo ritrovati ». Ha sempre creduto in una assoluzione: «Rifarei tutto. Se la sinistra perde di vista la tutela degli ultimi, che cosa diventa? L’altra notte ero tranquillo, nel dormiveglia riflettevo sulla richiesta di un amico afghano: due sue amiche — una dottoressa e un’infermiera — chiedono aiuto». Dovranno aspettare. E lui dovrà trovare un modo per vivere, perché non potrà per ora fare il tecnico di laboratorio, in un istituto di Caulonia. «Sono in aspettativa: anche volendo, non potrei rientrare». Salvini lo aveva definito “uno zero”. «Ha detto che questa condanna è una sua vittoria personale, per reazione mi è scattata in testa tanta voglia di continuare. Sapete che faccio? Non mi arrendo». Oggi alle 16 a Riace lo diranno in tanti. «E io di qui non me ne andrò mai».

in “la Repubblica” del 1 ottobre 2021