Educazione. “Insegnare il futuro” in una società postmoderna complessa e frammentata

FRANCESCO MACRI’

Se l’uomo moderno era “l’uomo delle certezze”, fondate sulle grandi “narrazioni”, l’uomo postmoderno, è l’uomo “ironico” perché accetta consapevolmente di vivere in un contesto culturale in cui esse non hanno più legittimazione e le molte interpretazioni della realtà sono considerate prive di ogni carattere di assolutezza; è l’uomo che “nutre profondi dubbi che non possono essere né confermati, né smentiti” perché conscio di non disporre di un “vocabolario universale” in grado di decifrare, in maniera definitiva e non semplicemente “nominalistica”, la sua esistenza. Possiede un particolare concetto di complessità che vede nella frammentazione del senso non una “unilateralità da inverare” o una “patologia dolorosa e insanabile” da denunciare, ma uno “status onirico” in cui si susseguono con disincantata melanconia le “grandi domande” che restano però senza risposta.

In questo nostro inquieto tempo in cui si celebra “l’imperialismo planetario dell’uomo tecnicamente organizzato”, l’homo sapiens, sofferente di una grave sindrome del pensiero, appare disorientato ed evasivo dinanzi al potere travolgente dell’homo faber. Le conseguenze di questo fenomeno sono state indicate con parole forti e drammatiche da H. Jonas: “Oggi tremiamo nella nudità di un nichilismo nel quale il massimo di potere si unisce al massimo di vuoto, il massimo di capacità al minimo di sapere intorno agli scopi”, e da A. Glucksmann: “L’orizzonte comune, l’idea, l’eidos che unifica la nostra civiltà è il nichilismo. È nichilismo, infatti, il macabro gusto della morte e dell’omicidio, manifestato dagli attentati da “fine del mondo” di Manhattan e di Madrid; nichilismo è il “furore teologico”, che fa di Dio “una forza militaresca”; nichilismo è l’idea di “colpire al cuore” lo stato per lasciare una traccia di sé attraverso la morte, come Erostrato che nel IV secolo a.C. incendiò il tempio di Artemide per avere il suo nome scritto nella storia, o come il personaggio del Marchese de Sade che dice: “Vorrei trovare un crimine il cui effetto perverso agisse, anche quando io non agirò più”; nichilismo è infine l’indifferenza religiosa, il vivere “come se Dio non esistesse”. “Dio ha disertato l’Europa, continua Glucksmann, perché è la prima volta che un’intera civiltà, quella occidentale, vive senza fare riferimento a Lui. Dopo aver perfino ucciso nel nome di Dio la gente, non sente più la sua voce, anzi non la vuole sentire. Questo dramma, religioso e spirituale, vissuto da tutta una civiltà, è avvenuto nel silenzio totale”.

L’inquietante terribilità di questo “tutto è permesso perché Dio non esiste” solleva un’inevitabile e vibrante domanda: Che fare? Come risalire la china? Come recuperare la speranza in una vita che abbia un senso e quindi una giustificazione e un valore? Una risposta convincente ed esaustiva è difficile darla perché riguarda un problema complesso e articolato. Ma un’osservazione, che noi consideriamo fondamentale, è possibile: per una vera difesa dell’uomo come “persona” occorre promuovere un umanesimo plenario ed integrale attraverso il recupero della sua ragione. Va, cioè, capovolta la concezione di lui come “scimmia nuda”, ossia come puro prodotto della biologia e del caso: “Io sono un insieme di acqua, calcio e molecole organiche”, e riproposta la sua grande dignità derivante dall’essere una creatura fatta ad immagine e somiglianza di Dio. Scavalcando l’ateismo moderno, che ha fatto di Dio il rivale dell’uomo, o dell’uomo un dio, e il nichilismo postmoderno che è “indifferente” a Dio, occorre ristabilire il giusto rapporto tra Dio e l’uomo: contro ogni “eclisse” agnostica, il volto di Dio deve nuovamente risplendere nella sua vera identità, quella di Padre, che gioisce della riuscita personale e storica dell’uomo. “La gloria di Dio è l’uomo che vive”, scrive S. Ireneo, perché Dio lo ha fatto “partecipe della sua natura divina” (2 Pt. 1,4).

È in virtù di tale riconoscimento che la dignità perduta o negata può essere restituita ad ogni “singolo” uomo, anche debole, malato, handicappato che sia, e che può essere recuperata una rinnovata fiducia negli strumenti, primo fra tutti la sua ragione, posti a sua disposizione per edificare il suo destino. Contro il relativismo della filosofia postmoderna, il cosiddetto pensiero debole, che offusca il bisogno della verità affermando o la sua irraggiungibilità o, addirittura, la sua inesistenza, questa prospettiva personalistica e trascendente è in grado di dimostrare la capacità dell’uomo di poter coniugare i valori del pluralismo con la verità che è una e indivisibile. Se questo non fosse possibile si dovrebbe amaramente concludere che gli è impedito ogni processo di socializzazione, che consiste nella trasmissione di valori e di modelli comportamentali, e di educazione, intesa come formazione di personalità libere ed autonome, perché là dove cessa, come ebbe a dire chiaramente Taylor, ogni «distinzione qualitativa» tra un livello assiologicamente superiore e uno inferiore, si determina una situazione di assoluta provvisorietà, acentricità, individualismo in quanto non c’è più una “storia” perché tutto è piegato sul «qui e ora»; una scala di valori perché non esiste un centro assiologico ma molti centri e tutti di eguale dignità; non una comunità di soggetti, ma tanti individui, chiusi solipsisticamente e narcisisticamente sui propri bisogni ed egoismi. Si determina cioè uno scenario fosco dove ogni comunicazione tra gli individui e le generazioni è assolutamente impossibile e una “solitudine immensa” e “sovrumani silenzi” (Leopardi) riempiono lo spazio vuoto e indecifrabile dell’esistenza di ognuno.

Di fronte a queste sfide, che sebbene contraddittorie ed autolesioniste riescono tuttavia ad avere un grande e pervasivo consenso nell’opinione pubblica, la scuola cattolica possiede una sua “parola” da dire? una sua “profezia” da annunciare? un suo “progetto educativo” credibile da proporre?

Il processo di rinnovamento che la vede oggi freneticamente impegnata non può certo limitarsi alle sole formule di ingegneria istituzionale, all’ottimizzazione dei metodi didattici, alla modernizzazione delle strumentazioni e dei contenuti, all’efficienza amministrativo-gestionale, alla produzione di standard di qualità ed eccellenza dei servizi. Questi aspetti, sono certamente importanti e indispensabili, ma non possono essere realizzati a scapito della sua “identità”, della sua “specificità”, della sua “tradizione pedagogica”, della sua “mission”. Se così fosse si verificherebbe un drammatico ribaltamento dei valori ai quali si è sempre ispirata, un dissolvimento delle ragioni che ne hanno giustificato la nascita. Ecco che allora in relazione al particolare contesto in cui è inserita deve offrire il “suo” progetto pedagogico cristianamente orientato”, perciò non “neutrale” rispetto alla cultura postmoderna dominante e al modello di sviluppo economico-sociale della società occidentale, non “indifferente” alle grandi questioni che la travagliano, come la pace, la guerra, la fame, le disuguaglianze sociali, l’intolleranza razziale e etnica, le conflittualità politiche, la marginalizzazione giovanile, la discriminazione della donna, le manipolazioni genetiche, ecc.. Un progetto che accetti il rischio della “scelta di campo”, anche se non in maniera “dogmatica”, salvo che non si tratti di valori fondanti per un credente; un progetto, comunque, sempre “proposto” e mai “imposto”, nel pieno rispetto della libertà di coscienza di ciascuno.

Di fronte agli orientamenti prevalenti di una orgogliosa enfatizzazione della libertà individuale, che spingono l’uomo a mettere da parte il rapporto vitale con la verità oggettiva, a considerarsi sorgente dei valori, a porsi al di sopra del bene e del male, a ridurre le norme morali a punti di vista soggettivi, a frantumare l’esistenza in una successione di esperienze effimere, a ridurre la società ad una folla anonima di individui indifferenti e solitari, la scuola cattolica non può non porsi la domanda fondamentale sulla “verità” dell’uomo e non sentire l’obbligo deontologico di affrontare, attraverso metodi, modalità e finalità che le sono proprie, questo grande interrogativo che sovrasta e pervade ogni esistenza umana.

Se, per incapacità o inerzia declinasse questo “imperativo morale” opererebbe un tradimento di se stessa ancor più grande e drammatico oggi allorché le principali tradizionali istituzioni di senso, come la famiglia e la chiesa, sono in una profonda crisi di credibilità. La scuola, nonostante i suoi limiti, è e rimane la “spazio relazionale più organico e significativo” dell’esperienza di un giovane, il luogo privilegiato per un confronto metodico e critico della realtà e dei valori dominanti, un’occasione, per molti irripetibile, per riflettere su se stessi e il mistero che li circonda, per tracciare alcune coordinate di significati sui quali poggiare la propria speranza di vivere. Perciò è importante che la scuola tout-court, ma in modo particolare quella cattolica in quanto si ispira ad una visione trascendente, abbia un valido progetto culturale che animi dall’interno quello educativo, didattico, organizzativo. Un progetto che non può essere “neutrale”, ma neanche “intollerante” e “integrista” perché solo la “verità fa liberi” e l’educazione non può mai prescindere né dalla libertà, né dalla verità. Un progetto che offra “un sapere per la vita” in due direzioni: “nell’offerta di strumenti che permettano ai giovani di interpretare e coordinare criticamente i molteplici messaggi che riceve; nella paziente e continuativa introduzione nel mondo dei significati umani (personali e collettivi), intuiti, comunicati e custoditi nella letteratura e nell’arte, nella ricerca scientifica e filosofica, nell’esperienza lavorativa e religiosa. Un “sapere per la vita”, dunque, come possesso di strumenti mentali, di informazioni corrette e di riferimenti ideali, che rende possibile il giudizio critico e l’autonomia personale, senza dei quali non ci sono libertà e responsabilità. Un “sapere per la vita” infine come porta di accesso ad una fede adulta perché “una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”.

Alcune di queste osservazioni, sebbene in una prospettiva e con un linguaggio “laico”, vengono proposte anche da Organismi internazionali e da esperti di fama mondiale, uno tra i tanti E. Morin. Non è possibile “insegnare il futuro” in una società basata sul sapere e nella quale gli individui sono sommersi da un grande flusso di informazioni sottoposte a rapida obsolescenza, con le risposte dell’educazione tradizionale essenzialmente di tipo quantitativo. Perché non è più sufficiente fornire ad un bambino, all’inizio della sua vita, un bagaglio di conoscenze al quale possa attingere per il resto della sua vita. Egli viceversa deve essere messo in grado di “imparare ad imparare” per l’intero arco della sua vita. E per renderlo capace di riuscire a svolgere i compiti che gli verranno assegnati, l’educazione deve essere organizzata attorno a quattro “pilastri” fondamentali: imparare a conoscere, cioè acquisire gli strumenti della comprensione; imparare a fare, in modo tale da essere capaci di agire creativamente; imparare a vivere insieme, in modo tale da partecipare e collaborare responsabilmente con gli altri; imparare ad essere, in modo da raggiungere la pienezza della propria personalità.

È necessario perciò che vengano cambiati gli obiettivi dell’educazione e le attese che si nutrono nei suoi confronti. Una concezione ampia e globale dell’apprendimento deve tendere a disvelare il “tesoro che è nascosto” in ciascun uomo. Ciò significa andare oltre una sua visione strumentale finalizzata solo al perseguimento di abilità, capacità, competenze, per arrivare ad una visione più complessiva e pregnante che metta al centro la persona alla ricerca della verità e dell’amore per pro- muoverlo ad “essere” sempre di più e non solo per sapere di più ed avere di più.