Le nuove frontiere della schiavitù

Olivier Grenouilleau

Oggi le vittime delle delocalizzazioni industriali possono essere considerate come degli schiavi «moderni», e lo stesso vale per gli impiegati delle piattaforme di stoccaggio Amazon, a cui vengono imposti braccialetti destinati a contabilizzare le loro uscite e i loro ingressi. Tuttavia, è chiaro che non si tratta davvero di schiavi. Da cosa derivano simili confusioni?

La risposta consiste in un duplice rovesciamento. Per come la intendiamo ora, la libertà è stata a lungo rara o inesistente, mentre le forme di dipendenza (tra cui la schiavitù) erano numerose. Poi, a poco a poco, la distanza tra la libertà e la schiavitù si è ristretta fino a sparire quasi del tutto. Siccome oggi abbiamo una concezione totale della libertà, ogni limitazione di questo principio essenziale può essere vista come una forma di schiavitù. O si è liberi o si è schiavi. La condizione intermedia diventa una sorta di impensato.

n ogni caso, la non-libertà è diventata sinonimo di schiavitù. Parallelamente, lo schiavo è stato ridotto sempre di più alla figura del cosiddetto lavoratore produttivo. In passato le cose non stavano così. Nel dizionario francese di Antoine Furetière (1690), lo schiavo viene definito come sottoposto «alla potenza di un padrone». Il suo “lavoro” non è la caratteristica essenziale. Al contrario, nel Grand dictionnaire universel di Pierre Larousse, pubblicato tra il 1866 e il 1879, schiavitù e lavoro produttivo sono strettamente collegati. Questo segna l’ingresso nell’età industriale. Per attirare l’attenzione sulla sorte dei poveri operai, i critici della società industriale li paragonano a schiavi. Félicité de Lamennais, precursore del cattolicesimo sociale, è uno dei primi a utilizzare, nel titolo di un’opera apparsa nel 1839, De l’esclavage moderne, l’espressione «schiavitù moderna»: «Che cos’è lo schiavo agli occhi del padrone?», scrive. «Uno strumento di lavoro […]. Che cos’è oggi il proletario agli occhi del capitalista? Uno strumento di lavoro». E conclude: «le catene e le verghe dello schiavo moderno sono la fame».

Un esempio in particolare è sintomatico dell’evoluzione dei rapporti tra schiavitù, libertà e dipendenza: quello dei domestici. In senso strettamente etimologico, l’uomo «addomestica» innanzitutto l’animale e la pianta. Aggiungiamo che le società che non avevano conosciuto la domesticità animale, come quelle degli Aborigeni d’Australia, non disponevano nemmeno di schiavi. In Europa, per limitarci a questa area geografica, il domestico è stato a lungo percepito come un dipendente. Ricordiamo innanzitutto che la schiavitù non è mai stata qualcosa di ovvio, di scontato, altrimenti gli uomini non avrebbero mai sentito il bisogno di inventare alibi per legittimarla. Aristotele, autore della prima teoria della cosiddetta schiavitù «naturale» che ci sia pervenuta, l’aveva elaborata già per rispondere alle obiezioni di sofisti di cui non conosciamo l’identità.

Questo non significa che gli attori del passato condividessero il nostro orrore per la schiavitù, ma solo che tentarono a lungo di trovare dei modi per scendere a compromessi con una situazione che creava imbarazzi. Così, dal Neolitico, quando la schiavitù sembra fare la sua comparsa, fino alla fine del Settecento, si dipana quello che ho chiamato, in La révolution abolitionniste (Gallimard, 2017), il tempo della casistica.

Poi tutto cambia. La rottura, radicale, consiste nel passaggio settecentesco dal principio della dissociazione dei diritti a quello del loro intreccio. In precedenza era accettabile che l’uomo, libero per diritto naturale, potesse essere schiavo secondo lo ius gentium. Ulpiano lo afferma chiaramente all’inizio del III secolo, senza alcun imbarazzo. E, per secoli, pochi ne sarebbero stati turbati. Dalla fine del Settecento, invece, non si parla più soltanto di riforme, di miglioramenti, di trasformazioni della tratta e della schiavitù, ma si pensa anche alla loro abolizione. Termine, questo, dagli accenti rivoluzionari, tanto appare controcorrente rispetto ai sistemi di pensiero precedenti, all’evoluzione di un sistema coloniale e schiavista americano all’epoca al suo apice. Per la prima volta nella storia dell’umanità, lo scopo è porre fine definitivamente alla tratta e alla schiavitù come istituzioni. Si entra quindi nell’era abolizionista.

Progressivamente, quindi, la tratta e la schiavitù vengono abolite, almeno nel mondo atlantico. Il Brasile è l’ultimo paese d’America a farlo, nel 1888. Quando la tratta atlantica cessa definitivamente, intorno agli anni Sessanta dell’Ottocento, gli abolizionisti si lanciano in un’impresa che mira ad abolire la schiavitù ovunque, soprattutto in Africa. Gli argomenti che adoperano sono simili a quelli del nostro attuale «diritto di ingerenza»: una situazione inumana si perpetua da qualche parte nel mondo e l’Occidente si sente in dovere di intervenire per porvi fine. Nel 1888, il cardinale Lavigerie, arcivescovo di Algeri e amico di papa Leone XIII, lancia così la sua «crociata africana» per debellare la schiavitù in Africa. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, l’abolizionismo fornisce quindi delle giustificazioni alla colonizzazione.

Le ragioni profonde della colonizzazione vanno cercate altrove, nella sfera politica ed economica. Ma l’abolizionismo le ha fornito degli alibi. Potremmo dire che la lotta continua, nel Novecento e nel nostro secolo. Tuttavia, essa perde la sua centralità. Perché l’Occidente non è più direttamente interessato. Perché la lotta contro la schiavitù diventa un elemento all’interno di una lotta più ampia in favore dei diritti dell’uomo. Perché l’abolizione legale e ufficiale è stata proclamata quasi ovunque, anche se alcuni stati, come l’Arabia Saudita o la Mauritania, hanno atteso, rispettivamente, il 1968 e il 2007 prima di adottare questa misura . Traduzione di Pietro Terzi

in “Il Sole 24 Ore ” del 12 settembre 2021