L’insostenibile solitudine dell’eutanasia

LUCETTA SCARAFFIA

Dietro il referendum per il suicidio assistito i nodi irrisolti di questioni che in altri paesi hanno coinvolto il mondo laico.

Sono facilmente condivisibili alcune ragioni di chi sostiene il referendum per una legge che permetta il suicidio assistito e in un senso più largo l’eutanasia: tutti sappiamo che l’incredibile avanzamento della ricerca scientifica in campo medico ha anche un risvolto negativo. Le tecnologie che consentono di strappare alla morte esseri umani che fino a qualche anno fa non avrebbero avuto speranze possono anche costringere alla sopravvivenza in condizioni terribili, sospesi tra la vita e la morte. In sostanza, spesso si può rianimare una persona gravemente compromessa, ma non si sa se tornerà a vivere in uno stato accettabile.

A questo timore si aggiunge quello dell’accanimento terapeutico, condannato a parole ma nella realtà praticato negli ospedali come forma di autodifesa contro possibili denunce legali. Si tratta di situazioni nuove, che un tempo non si verificavano e che fanno nascere nuove paure. Possiamo ben capire come in questi casi il rifiuto delle cure, anche di quelle vitali, sotto attento controllo di una commissione bioetica, possa venire invocato e accolto. Ma questa possibilità è già consentita dalla legge italiana, e confermata da alcune sentenze, tra cui l’assoluzione dell’anestesista che ha staccato Piergiorgio Welby dalla macchina respiratoria.

La legge invocata dal referendum va però molto al di là, e questa propaganda per legalizzare il suicidio assistito – o l’eutanasia – si fonda, come avviene da decenni, su drammatici casi che suscitano angoscia e solidarietà più che riflessione. Ma questo non è un bene, perché si tratta di questioni che richiedono profonda riflessione. Il tema del fine vita non riguarda infatti solo singoli individui, e non si tratta soltanto di stabilire se un essere umano abbia il diritto di disporre della sua vita o no. Riguarda la cultura condivisa di un’intera società, e non perché le gerarchie ecclesiastiche e i credenti obbedienti vogliano imporre agli altri la loro volontà in proposito, ma perché è un problema collettivo, da discutersi in comune. Non si tratta di diritti individuali e di libertà, ma di molto di più, perché la morte è la chiave di volta di una civiltà, di una cultura condivisa.

Il dibattito nel nostro Paese è fossilizzato invece in uno scontro tra credenti e non credenti, mentre altrove, come in Francia o Germania, ha coinvolto il mondo laico, una parte del quale sostiene che l’insistenza sulla libertà individuale nasconde una realtà inquietante: legalizzare l’eutanasia è un passo che una società compie verso la cancellazione del divieto di omicidio, mentre con l’abolizione della pena di morte le società contemporanee, in nome dei diritti dell’uomo, hanno fatto la scelta opposta. La possibilità di ammettere l’eutanasia, scrive Jean Leonetti, il deputato socialista francese estensore di un’ottima legge sul fine vita, «farà cadere la proibizione più importante di una società democratica».

La legalità di una decisione per l’eutanasia si basa sul mito della libertà del consenso individuale, come se un essere umano potesse essere veramente libero dai condizionamenti del contesto in cui vive, specie se fragile e bisognoso di continue cure. Lasciare tutto alla scelta individuale del paziente è un modo per sfuggire alla responsabilità del medico e del giudice, per addossare tutto sulle spalle del malato. I legami di solidarietà continuano a degradarsi in nome dell’autonomia totale della persona.

Insistere sull’assoluta libertà di scelta nel morire non fa che sottolineare la solitudine del morente che caratterizza la società contemporanea: nelle società democratiche il morente è la figura estrema dell’individuo, staccato da ogni affiliazione collettiva. Norbert Elias sostiene che questa desocializzazione della morte lascia l’agonizzante completamente da solo con la sua responsabilità, privo di conforto e di condivisione. La situazione reale poi è ben lontana da quella morte facile, indolore, invocata come rimedio alle sofferenze: non c’è una morte felice, sottolinea Leonetti, quali che siano le cure mediche, spirituali o religiose messe in atto; e quali che siano la fede o la forza di carattere di ciascuno, la morte è sempre una frattura dolorosa: «I medici sanno anch’essi che i fine vita senza sofferenza e senza sintomi sono rari malgrado tutte le possibilità mediche attuali. Questa ricerca della morte “senza fastidi” è una illusione e la medicina si trova una volta ancora impreparata davanti alla missione impossibile che gli è stata assegnata: sopprimere la tragicità della morte».

Le richieste di suicidio assistito e di eutanasia nascono spesso in un contesto d’impazienza: se la malattia è mortale, se una persona è destinata a morire a breve, è meglio provvedere subito. Niente inquieta di più dell’attesa della morte, che mette a nudo la nostra ignoranza, la povertà della nostra secolarizzazione, la nostra paura davanti al mistero. Scrive Jean Baudrillard che «la nostra idea moderna della morte è governata da un sistema di rappresentazione del tutto diverso: quello della macchina e del funzionamento. Una macchina funziona o non funziona. Così la macchina biologica è morta o viva». Le facce opposte dell’accanimento terapeutico e dell’eutanasia nascondono lo stesso disagio davanti al tempo necessario per morire: nel primo caso s’insiste a curare fingendo di poter intervenire per salvare fino all’ultimo, nel secondo si nega l’attesa, e in questo modo si pensa di poter negare la morte.

In sostanza, non vogliamo ammettere che della morte, anche dal punto di vista biologico, sappiamo ancora ben poco, come dimostrano le polemiche sempre aperte sulla definizione di morte cerebrale. Come osserva Louis-Vincent Thomas, «fra l’interruzione dell’esistenza per il venir meno di determinate funzioni vitali e la morte organica per deterioramento dei tessuti, si inseriscono alcuni stadi poco conosciuti, che sono forse di importanza capitale per comprendere l’attività psichica del morente. Il tempo della morte non è scientificamente definito».

Invece noi vorremmo che il passaggio dalla vita alla morte avvenisse come attraverso un interruttore, un rapido clic, dimenticando che si tratta dell’incontro tra due mondi incommensurabili, tra il finito della vita umana e l’infinito dell’immortalità. Anche per chi pensa che vi sia il nulla, cioè un vuoto infinito. La morte fa da collegamento ma anche da barriera – in sostanza è una soglia – tra tempo e eternità. Non si può considerare una scelta come tante altre prese nella vita. Crediamo di poter controllare anche la morte, di sapere cos’è, senza renderci conto che stiamo giocando con un fuoco che può distruggere il rispetto di ogni essere umano, quel rispetto da poco condiviso – almeno in teoria – da gran parte dell’umanità.

in “La Stampa” del 18 agosto 2021