I cento anni di Edgar Morin, filosofo della complessità

GIUSEPPE PULINA

Compie cent’anni Edgar Morin, il filosofo che ha insegnato a tutti che una testa ben fatta vale più di una collezione di tante belle teste. Grazie a Edgar Morin, ultimo filosofo ad entrare nella hall of fame dei grandi pensatori centenari, abbiamo compreso che può esistere un’estetica vanesia dell’intelligenza e che il pensiero veramente evoluto e realmente adulto è quello che ben conosce la sua costitutiva vulnerabilità. Un po’ come sosteneva Pascal, filosofo al quale Morin riferisce alcune delle sue più geniali intuizioni, secondo il quale dovremmo sempre avere presente la nostra naturale vocazione al fallimento. A differenza dell’amato Pascal, Morin farà dei tanti fallimenti che lastricano la via del progresso la materia prima di cui questo non potrà mai fare a meno. Ancor più di Pascal, oltrepassando i tanti dualismi tipici della modernità post-cartesiana (cuore/ragione, saggezza/scienza, anima/corpo, fede/razionalità), Morin chiarirà che non c’è errore più grave di quello che potrebbe privare l’uomo anche solo di una piccola parte dei tanti talenti che possiede.

L’universo-ologramma di Morin

Per comprendere meglio la posizione di Morin, che non può essere confusa con una generica e non di rado retorica valorizzazione della dignità umana, può essere d’aiuto il concetto di un ologramma, figura tridimensionale che suggerisce l’immagine di un’entità profonda e complessa. In Una testa ben fatta, opera del 1999 il cui sottotitolo (Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero) esplicita nobili e urgenti finalità, Morin introduce quello che in filosofia e nella ricerca sociale è conosciuto come “principio ologrammatico”. In virtù di questo, dovremmo tenere conto del fatto che, proprio come diceva Pascal, non si può concepire il tutto senza concepire le parti, così come è impossibile pensare queste ultime a prescindere dalla totalità di cui fanno appunto parte.[1] Come una cellula, che è in sé autosufficiente perché raccoglie interamente il nostro patrimonio genetico e che è, comunque, pur sempre parte di un tutto più grande. E così la società che, in piena epoca planetaria (altra formula attribuibile al filosofo francese), è presente in ogni individuo, non essendo questo solo uno dei tanti elementi che, messi in ordine e sommati come astratte cifre, ne costituirebbero il totale. Chi crede ancora che la quantità non abbia relazioni con la qualità e che la sola oggettività perseguibile sia fatta di numeri e misure sarebbe ben lontano, secondo Morin, dall’avere una piena coscienza della complessità del reale. Sarebbe, in parole povere, gravemente e pericolosamente lontano dal comprendere l’epoca e il mondo nel quale vive.

Pensare la complessità

Nei Sette saperi necessari all’educazione del futuro, non diversamente da tanti filosofi del passato (pensiamo al Platone della Repubblica, ad esempio) che sentivano l’obbligo di doversi pronunciare sulla crisi del proprio tempo, Morin prova a ripensare la tradizione e a dare istruzioni per la comprensione del presente. Fa i conti con le certezze e i paradigmi della modernità, le paure e i gretti particolarismi dell’uomo del suo tempo, il senso fatalistico della sfiducia nel progresso e le numerose dicotomie che hanno portato alla cristallizzazione e specializzazione di saperi sempre meno comunicanti che hanno vanificato le più promettenti forme di umanismo. Un tardo prodotto di questa residuale modernità sarebbe l’uomo del nostro tempo che tutto vuol comprendere, senza voler però innanzitutto comprendere che cosa significhi comprendere. Con un esempio un po’ abusato, si potrebbe immaginare la condizione dell’uomo contemporaneo simile a quella di un provetto aviatore che sa pilotare qualsiasi aereo, avendone appreso diligentemente la tecnica di guida. Non conosce però gli ingranaggi e i processi della macchina e, nell’eventualità di un’avaria, deve affidarsi al pilota automatico o alle istruzioni della torre di controllo. Solo quando avrà la sventura di sperimentare una situazione tanto disperata, capirà di non avere le conoscenze necessarie per cavarsela e che nemmeno dalla torre di controllo sapranno dirgli che cosa fare per salvare la vita di equipaggio e passeggeri. Mai e poi mai avrebbe pensato di potersi trovare un giorno a fare fronte a una situazione tanto critica, perché mai e poi mai aveva ritenuto necessario riflettere sull’efficacia e sulla natura dei processi cognitivi e decisionali che hanno reso pericolosamente normali e ordinari i suoi gesti.

Un nuovo umanesimo

Di teste ben fatte si parla da anni nel mondo della scuola. Lo si fa ogni volta che si discute di contesti significativi dell’apprendimento, di compiti autentici e connessioni pluridisciplinari. È a Edgar Morin e all’influenza della sua pedagogia dell’inatteso che va riconosciuto il merito di aver gettato un ponte tra i saperi dell’uomo, siglando un patto tra quelle che venivano una volta chiamate scienze dello spirito e scienze della natura. Chiediamoci: che cosa può esserci di più dannoso  di una cultura umanista cui viene interdetta la conoscenza scientifica e di una cultura scientifica a cui viene negato il potere di riflessione proprio della cultura umanista?[2] Solo nella saldatura di queste due dimensioni, l’impegno ecologico delle nuove generazioni potrà vincere la difficile sfida della difesa del pianeta. Non sorprende perciò l’apprezzamento dell’anziano filosofo rivolto alla figura, decisamente meno amata da altri filosofi, di Greta Thunberg, che avrebbe dato una specifica impronta generazionale alle grandi questioni ecologiche del nostro tempo.[3] Con parole che potrebbero far pensare allo stile e alle posizioni della giovane attivista svedese ha scritto che «il dominio sfrenato della natura attraverso la tecnica conduce l’umanità al suicidio».[4] (71).

Edgar Morin, educare alla terrestrità 

Una delle vie per scongiurare il disastro è la fondazione di una nuova coscienza planetaria. Nuova non solo perché posteriore alle diverse rivoluzioni copernicane che si sono succedute negli ultimi cinque secoli; nuova perché crede nella terrestrità come vocazione e non come destino a cui rassegnarsi. Il pianeta di cui parla Morin è la stessa “casa comune” oggetto delle preoccupate attenzioni di papa Francesco nell’enciclica del 2015.[5] Per prendercene cura, dovremmo sviluppare una forma di saggezza che all’uomo non appartiene ancora pienamente. È la “simbiosofia”, la saggezza del vivere insieme, il sentirsi cittadini tanto del mondo quanto del pianeta, raggiungibile a patto che, per dirla con il filosofo francese, si abbandoni definitivamente «il sogno prometeico del dominio dell’universo per alimentare, al contrario, l’aspirazione alla convivialità sulla Terra».[6] Perché tutto ciò si realizzi occorrerà perseverare in ciò che all’umanità dovrebbe riuscire meglio: «continuare l’opera essenziale della vita che è di resistere alla morte».[7]

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[1]  Cfr. E. Morin, Una testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero [1999], tr. it. di Susanna Lazzari, Raffaello Cortina, Milano 2000, 97.
[2]  Cfr. https://www.indire.it/content/index.php?action=read&id=165.
[3] Cfr. https://www.avvenire.it/agora/pagine/per-luomo-tempo-di-ritrovare-se-stesso.
[4] Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro [1999], tr. it. di S. Lazzari, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001, 71.
[5] Cfr. https://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html.
[6] Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, cit., 78.
[7] Ivi, 80.

in https://www.leurispes.it del 09 luglio 2021

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