Il gender gap nelle Università italiane

GLORIA BOTT

Il 12 aprile 2021 Maria Chiara Carrozza è stata nominata presidente del Consiglio Nazionale della Ricerca (CNR), un ente pubblico fondato nel 1923 con lo scopo di portare avanti progetti di ricerca in molteplici settori. È, infatti, il maggior ente non universitario coinvolto nei dottorati di ricerca degli atenei italiani. Carrozza è la prima donna a rivestire questo ruolo, una posizione apicale in ambito scientifico. Insomma, la conquista di una vetta.

Questa notizia ha suscitato una curiosità: a che punto siamo con la parità di genere in ambito universitario e accademico?

Anticipiamo solo che la prima donna alla guida di un ateneo in Italia è stata Bianca Maria Tedeschini Lalli eletta nel 1992 rettrice di Roma Tre. Oggi sono cinque le donne rettrici di atenei italiani (Giovanna Iannantuoni, Milano Bicocca; Tiziana Lipiello, Ca’ Foscari di Venezia; Maria Grazia Monaci, Università della Valle d’Aosta; Sabrina Nuti, Scuola Superiore Sant’Anna; Antonella Polimeni, La Sapienza di Roma), concentrati nelle regioni del Centro-Nord, su un totale di 83 atenei (fonte: CRUI.it).

La base della piramide

Proviamo a immaginare il mondo universitario e accademico come una grande piramide: alla base troviamo la popolazione studentesca che, facendo riferimento ai dati del 2019, è costituita da circa 1,7 milioni di studenti e studentesse.

A questo primo livello le cose sembrano essere equilibrate, anzi, negli ultimi 15 anni si attesta una maggiore presenza delle donne tra gli iscritti all’università (55,8%) e tra i laureati (59,6%) in Italia. Il gender gap sembrerebbe scongiurato. Invece, purtroppo, è ancora presente, e, per essere colto, necessita di un’analisi più approfondita e disaggregata dei dati.

A questo livello della piramide il gender gap si manifesta attraverso la cosiddetta segregazione orizzontale, dovuta in particolare a stereotipi culturali secondo i quali le donne e gli uomini tendono a scegliere percorsi tradizionali rispetto al genere. Il 78% degli iscritti all’area Humanities and Arts è costituito da donne, mentre, al contrario, il 73% degli iscritti all’area Engineering and Technology è composto da uomini (fonte: ustat.miur.it).

La tendenza alla polarizzazione donne-facoltà umanistiche e uomini-facoltà scientifiche in parte contribuisce allo svantaggio femminile nel mondo del lavoro. Il PNRR 2021 (Piano Nazionale di Resistenza e Resilienza), infatti, riporta come siano le competenze in ambito STEM – Science, Technology, Engineering and Mathematics a essere maggiormente richieste dal mercato del lavoro. Si potrebbe aprire un’ampia discussione sull’importanza dell’area Humanities and Arts – tanto bistrattata e spesso considerata l’ultima ruota del carro, soprattutto dal punto di vista lavorativo – ma rinviamo a un nostro recente articolo, che si pone proprio in questa direzione.

Poiché sono relativamente poche le donne che intraprendono o hanno intrapreso gli studi afferenti all’ambito STEM, ciò rende ancora più svantaggiata e incerta la loro situazione lavorativa.

Segregazione verticale, glass ceiling e leaky pipeline

Salendo ai livelli superiori della piramide la situazione cambia in modo significativo e il gender gap è ben visibile.

Le percentuali di dottorandi e dottorande e di ricercatori e ricercatrici variano leggermente rispetto a quelle riportate per gli studenti e le studentesse, mantenendo comunque un equilibrio uomini-donne, perlomeno a livello generale. Ciò è anche dovuto al fatto che i percorsi di dottorato e di ricerca in Italia sono considerati come la parte finale della formazione universitaria, mentre in altri Stati europei e non essi coincidono con l’inizio della carriera accademica.

È per questo motivo che a livello europeo si riscontrano dei cambiamenti nelle percentuali già a partire dal percorso di dottorato. Ne consegue che la percentuale di donne che in Italia conseguono il titolo di dottore di ricerca (51%) e delle donne che intraprendono il dottorato in area STEM (41%) è superiore rispetto alla media europea.

Il vero e proprio spartiacque si manifesta in ambito accademico: nel 2019 le donne costituiscono il 40% dei professori associati, il 25% dei professori ordinari e il 6% dei rettori di ateneo. Paradossalmente, pur essendoci un numero maggiore di donne iscritte all’università e laureate, i ruoli all’apice della carriera accademica sono ricoperti soprattutto da uomini. Questo è il secondo tipo di segregazione che si incontra: la segregazione verticale.

A essa si aggiungono i fenomeni del glass ceiling – ovvero del “soffitto di cristallo”, una barriera invisibile che per molteplici motivi impedisce alle donne di accedere a posizioni apicali – e del leaky pipeline (“la tubatura che perde”), cioè la tendenza delle donne laureate a non intraprendere la carriera accademica una volta concluso il periodo di formazione.

Il Bilancio di Genere

Il quadro delineato evidenzia quanto ancora ci sia da lavorare per abbattere le barriere visibili e invisibili, culturali e strutturali, che impediscono la realizzazione di una piena parità di genere, in particolare ai vertici della carriera.

Da qualche anno esiste uno strumento per misurare lo stato di salute degli atenei italiani: il Bilancio di Genere (BdG), un documento che ogni ateneo redige – seguendo delle linee comuni – per dar conto della situazione della parità o disparità di genere nel corpo docente, nel personale tecnico-amministrativo e tra studenti e studentesse. In questo modo emergono i punti critici che devono essere sanati, ma si raccolgono anche i frutti delle azioni positive precedentemente messe in pratica.

Ci auguriamo che le misure messe in atto e che verranno messe in atto, l’attenzione posta alla parità di genere dal PNRR 2021 e le nostre piccole azioni quotidiane portino a non stupirci più, a non ritenere più la nomina di una donna in posizioni apicali un evento straordinario.

in Settimana News, 31 maggio 2021

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