Amnesty International. Da 60 anni dalla parte dei diritti umani

Gian Antonio Stella

Dalla candela di Benenson alle campagne per i diritti umani. Sempre in prima fila contro le
ingiustizie. I 60 anni di Amnesty International.

«Aprite il vostro quotidiano un qualsiasi giorno della settimana e troverete la notizia di qualcuno, da qual he parte del mondo, che è stato imprigionato, torturato o ucciso poiché le sue opinioni e la sua religione sono inaccettabili per il suo governo». Sessant’anni dopo, la foto sulle prime pagine di mezzo mondo del volto tumefatto del dissidente bielorusso Roman Protasevich rapito dalla polizia del dittatore Alexander Lukashenko col criminale dirottamento del volo Ryanair da Atene a Vilnius, conferma esattamente quanto scrisse sessant’anni fa l’allora trentanovenne londinese Peter Benenson.
Aveva letto sul giornale, mentre viaggiava sulla metro, che due studenti portoghesi erano stati arrestati e condannati dalla magistratura in pugno all’autocrate fascista António de Oliveira Salazar perché «colpevoli» di aver fatto un brindisi alla libertà in un caffè di Lisbona e non riusciva a toglierselo di mente: ma come, in Europa, quindici anni dopo la fine della guerra e dei regimi di Hitler e Mussolini! Scandalizzato, aveva inviato quindi al settimanale londinese The Observer una lettera aperta dal titolo «The Forgotten Prisoners», i prigionieri dimenticati, che cominciava proprio con quelle parole succitate. I miracoli, a volte, capitano. E fu così quel 28 maggio 1961: l’appello ai lettori perché si mobilitassero, scrivessero ed esercitassero pressioni sui governi per chiedere l’amnistia e il rilascio dei prigionieri politici fu istantaneamente raccolto non solo dai cittadini ma da oltre una trentina di giornali internazionali. Poche settimane e dalla campagna di stampa nasceva Amnesty International . Che nel giro di sei mesi aveva già sedi e strutture in Gran Bretagna, Irlanda, nei Paesi Bassi, in Belgio, Francia, Svezia, Norvegia, Australia, Stati Uniti.

Quel 1961 non era un anno qualsiasi. Era il centenario, spiegherà lo stesso Benenson, della liberazione dei servi della gleba in Russia e dell’inizio della guerra civile americana che avrebbe portato alla liberazione degli schiavi: «In passato i campi di concentramento e altri buchi infernali del mondo erano immersi nell’oscurità. Oggi sono illuminati dalla candela di Amnesty , una candela avvolta dal filo spinato. Quando ho acceso la prima candela di Amnesty avevo in mente un vecchio proverbio cinese: “Meglio accendere una candela che maledire l’oscurità”».
Da quel momento, l’organizzazione umanitaria, che aveva scelto come obiettivo di partenza la liberazione di un poeta angolano, un filosofo romeno e un avvocato spagnolo tutti vittime di regimi di tipi diversi proprio per significare l’opposizione verso ogni tipo di dittatura, si è guadagnata il Nobel per la pace del 1977 dando battaglia sui fronti più diversi. Da Haiti, che Peter Benenson visitò nel 1964 spacciandosi per un turista così da raccontare gli orrori di Francois Duvalier detto Papà Doc, ai regimi militari africani, dall’Urss ai paesi arabi, dall’Indocina a Paesi occidentali sulla carta estranei a ogni violenza. Vent’anni dopo la fondazione, nel 1981, come ricorda un’inchiesta di Storia Illustrata, due numeri dicevano tutto: «Su 1.573 nuovi casi di prigionieri “adottati” si hanno 1.449 liberazioni: una percentuale altissima, addirittura strabiliante».

Certo, non sono mancate le polemiche. Soprattutto a partire dagli anni Novanta. «Amnesty ha subito una metamorfosi profonda. Non si occupa più soltanto di prigionieri e dissidenti, ma spazia dal matrimonio omosessuale all’aborto come “diritto umano”», riassunse ad esempio Giulio Meotti sul Foglio di qualche anno fa, «Un tempo, Benenson e soci si battevano contro l’apartheid e il comunismo. Oggi i loro eredi vogliono curare i peccati delle democrazie e si occupano di denunciare il big business e il climate change». Vero? Falso? Il dibattito ogni tanto si riaffaccia.
Certo è che ancora oggi, come ricordano campagne importanti come quelle contro la pena di morte («perché uccidere chi uccide per dimostrare che non bisogna uccidere?») ancora applicata in oltre 120 Paesi del mondo o contro la barbarie delle «spose bambine», Amnesty è sempre in prima fila.
Contro le sevizie nei Centri di detenzione di migranti in Libia, contro le sparizioni di dissidenti inghiottiti dalle prigioni cinesi, contro le esecuzioni (almeno 246 nel solo 2020) in Iran, contro i silenzi di tanti regimi sulla repressione del dissenso… Basti ricordare la sacrosanta e cocciuta attenzione con cui l’organizzazione umanitaria insiste da anni al fianco dei genitori per avere la verità sulla morte di Giulio Regeni o pretende la scarcerazione sempre in Egitto dello studente Patrick Zaki.


Così come aveva dato battaglia perché fossero processati i carabinieri responsabili della morte di Stefano Cucchi. I quali dopo anni e anni sono stati sì condannati. Ma non per tortura. Dettaglio su cui alla pena di riflettere. Sono passati trecentonovantuno anni, infatti, dalla «sentenza data a Guglielmo Piazza e Gio. Giacomo Mora i quali con onto pestifero hanno appestato la Città di Milano l’anno 1630» prima che un tribunale italiano condannasse finalmente, quest’anno, un pubblico ufficiale per questo tipo di reato. Certo, non c’è paragone tra i supplizi inflitti a un detenuto nel carcere di Ferrara (fatto «denudare e inginocchiare e in quella posizione percosso» e quindi vittima di un «trattamento inumano e degradante») e quelli cui furono sottoposti (ne scrive Alessandro Manzoni in «Storia della colonna infame») i due poveretti accusati d’essere gli untori della peste a Milano. Ma il ritardo italiano rispetto ad altre nazioni resta imperdonabile. Così come va registrato che questa prima condanna italiana (al minimo della pena, tre anni col rito abbreviato) era stata preceduta giorni prima dall’arresto di altre tre guardie del carcere di Sollicciano ma anche dalla reazione di Edmondo Cirielli, di Fratelli d’Italia: «Ribadiamo la necessità di riscrivere il reato di tortura, introdotto dalla sinistra per delegittimare il lavoro delle forze dell’ordine». Ma come, alleggerirlo dopo tanti anni di battaglie perché fosse finalmente introdotto?


Ecco: non è detto che la possibilità di processare i carnefici per il reato di tortura sia una conquista acquisita. Vale anche qui il monito di Pietro Calamandrei per le stesse fondamenta della nostra Repubblica: «La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lasci cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità».

in “Corriere della Sera” del 26 maggio 2021