Se le vite dei neri non contano

ALESSANDRO BARBERO, intervistato da Adriana Riccomagno


“Alabama”, di Alessandro Barbero (Sellerio) è la vicenda di un eccidio di “negri”, durante la Guerra di Secessione, la prima grande lacerazione nazionale che divide l’America tra chi vuole bandire la schiavitù e chi non vuole.

Non è Alessandro Barbero a raccontare, ma un vecchio sopravvissuto alla guerra di secessione: è Dick Stanton, un bianco, sudista, uno sconfitto, che, in fin di vita, viene pungolato da una studentessa a testimoniare su uno dei periodi più drammatici e cruenti della storia americana. È Alabama, la nuova fiction storica di Barbero in uscita dopodomani per Sellerio, che va alle radici dei fenomeni del razzismo e del suprematismo bianco scavando nel conflitto combattuto tra il 1861 ed il 1865 tra gli Stati del Nord e quelli del Sud. Centrale è la vicenda di un eccidio di neri nella cornice della prima grande lacerazione nazionale, che divide il Paese tra chi vuole bandire la schiavitù e chi la difende. Il narratore e protagonista divaga, sbanda, diventa irritante. E’ un viaggio nel tempo alle origini degli spettri che non hanno mai smesso di agitarsi, fino ai giorni nostri, alle violenze quotidiane sui neri.

La morte di George Floyd, il movimento Black lives matter: lo spunto è venuto dall’attualità? «No, ma i percorsi di creazione sono strani e spesso ci si accorge di aver scritto qualcosa che ha una ricaduta attuale, pur senza essersene resi conto. L’idea e la prima stesura risalgono a molto tempo fa: tengo a lungo dei cantieri aperti, mi piace lavorare sulle cose, lasciarle lì e poi riprenderle. Con questo libro ho giocherellato per anni. Come tutti i romanzi storici nasce dall’innamoramento per un periodo, per un mondo perduto, e in questo caso dal desiderio di ricreare un linguaggio, quello del protagonista: la sfida di provare a diventare ventriloqui, dando voce a un personaggio vissuto in una realtà tanto distante, che parla l’inglese americano nel dialetto del sud, usando espressioni tipiche che ho cercato di ricalcare pur scrivendo in italiano».

Ha scelto il punto di vista di un antieroe. Perché?
«Sono sempre stato affascinato dalle sconfitte, da come si determinano e da quali conseguenze
provocano; del resto mi occupo di storia militare. Ho scritto sulla battaglia di Waterloo, che non è la vittoria Wellington ma la rovina di Napoleone, e di Caporetto, la più pesante disfatta italiana in guerra: è profondamente romanzesco e appassionante. Della guerra civile americana, quindi, mi interessavano i sudisti. Al di là del fatto che da bambini, quando si giocava con i soldatini, di solito tutti tenevano per loro, per l’alone romantico della causa persa, ho letto per tanti anni la storiografia e ho sentito che mi interessava questo punto di vista: era gente in buona fede che difendeva un sistema indifendibile come quello della schiavitù. Erano convinti di preservare la democrazia, in un modo che può sembrare perverso ma è perfettamente lineare per quel mondo: non solo l’élite e i proprietari terrieri, ma anche la gente comune credeva di essere l’incarnazione del sogno americano di libertà e democrazia. Il tutto basato sulla schiavitù, che è la contraddizione alla base degli Stati Uniti, i cui primi presidenti avevano a loro volta degli schiavi».

Qual è il suo rapporto con gli Stati Uniti?
«Come storico sono abituato ad avere un legame con i luoghi e le civiltà mediato dalla lettura delle fonti. Ci sono stato qualche volta in viaggio per lavoro, soprattutto a New York, ma non ne ho una conoscenza approfondita di prima mano. Mai visto l’Alabama se non grazie a Google Earth e Google Maps: a me interessa quello del 1863. Non è così importante scoprire com’è oggi, lo è di più ascoltare le testimonianze di chi c’era in quell’epoca». La rappresentazione della guerra di secessione per antonomasia è Via col vento, rimosso dalla piattaforma Hbo Max per il tempo necessario a inserire un’avvertenza sui contenuti razzisti.

L’America ha dei problemi con la propria storia? «Li hanno tutti. In questo momento negli Stati Uniti sono particolarmente visibili sia per quanto riguarda il rapporto con i nativi americani, che la schiavitù e la tratta degli africani. Si può far finta di nulla per un po’, ma poi i problemi irrisolti vengono fuori, e in un Paese grande e violento come quello, quando accade, è spaventoso. Noi abbiamo l’Unita d’Italia e il fascismo che sono due grossi nodi ancora in ballo, anche se adesso se ne parla meno perché c’è il dramma della pandemia con cui confrontarsi.
«Altro tema sono le censure, che trovo infantili e stupide. È incredibilmente puerile guardare un pezzo del passato, scoprire che non ci piace quello che si faceva o si pensava, e avere come prima reazione “lo cancello”; poi, come in questo caso, comprendere che è impossibile distruggere tutte le copie di un film, e allora aggiungere un disclaimer: “Attenzione, nuoce gravemente alla salute”. È una denuncia di debolezza e sfiducia dire: “Vi avverto prima che i protagonisti sono cattivi e non dovete prenderli a modello”. Eppure oggi si usa così».

Quale figura storica avrebbe voluto essere, oppure chi le piacerebbe conoscere?
«Sull’essere non mi esporrei: da Carlo Magno a Napoleone, da Costantino a Dante, di cui mi sono occupato di recente, quando si studia un personaggio ci si accorge che le vite sono complicate, piene di dolore e delusioni. Difficile scegliere tra i tanti che vorrei incontrare, ma darei un dito, se non un braccio, per Dante, per scoprire dal vero che faccia aveva e sentirlo parlare».

in “La Stampa” del 20 aprile 2021

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