La grande prigione siriana

Yassin al Haj Saleh, Al Jumhuriya

La famiglia Assad governa il paese da mezzo secolo; più di quanto sia durato il regime comunista in Germania Est o l’apartheid in Sudafrica. In questi cinquant’anni la Siria ha vissuto due guerre interne, oltre al conflitto del 1973 contro Israele: la prima guerra siriana del 1979-1982, e la seconda guerra siriana, che va avanti da dieci anni, più o meno quanto le due guerre mondiali messe insieme.

Durante la prima guerra siriana – combattuta contro il movimento dei Fratelli musulmani e culminata con il massacro di Hama nel 1982 – decine di migliaia di persone trascorsero lunghi periodi in carcere. Io sono uno di loro. La seconda

guerra siriana ha causato centinaia di migliaia di vittime e un numero ignoto di persone arrestate, torturate e scomparse. Al recente processo di Coblenza, in Germania, un addetto alla sepoltura siriano nella sua testimonianza ha parlato di “milioni” di cadaveri (il 24 febbraio l’ex agente dei servizi segreti siriani Eyad al Gharib è stato condannato a quattro anni e mezzo di carcere per “complicità in crimini contro l’umanità” compiuti da Damasco, mentre Anwar Raslan è ancora sotto processo per la morte di 58 persone e le torture inflitte a quattromila detenuti in Siria).

Ma non conosciamo davvero quante sono le vittime di tortura. In un rapporto diffuso nell’agosto 2020, il Syrian network for human rights stima che le vittime di sparizione forzata in Siria siano quasi 100mila. Temo che molte di loro non siano più vive.

Per ora il potere dinastico degli Assad è garantito, dato che la Siria è diventata un protettorato russo-iraniano. Dopo tutti gli spargimenti di sangue, questo passaggio potrebbe rivitalizzare il regime e allungare la vita della sua macchina assassina almeno per un’altra generazione.

Una barriera tra le persone

Ma dove cercare l’origine di questa crisi nazionale e di cittadinanza nella più antica repubblica araba?

In parte nella politica del carcere, per cui la prigione assume la funzione di depoliticizzare la popolazione, anzi, di commettere un politicidio. Il concetto di politicidio è stato introdotto nelle scienze politiche negli anni ottanta per indicare l’uccisione di massa di persone per la loro affiliazione politica, invece che per l’identità nazionale, etnica o religiosa citata nella convenzione sul genocidio approva- ta dall’Onu nel 1948.

Tuttavia con questo concetto io mi ri- ferisco all’uccisione politica delle persone, a prescindere dalla loro eliminazione fisica. Negli anni ottanta in Siria si praticarono entrambe le forme di politicidio: i militanti di sinistra erano uccisi politica- mente, gli islamisti erano uccisi sia politicamente sia come comunità politica. Ma così si rischia di mascherare il fatto che anche i siriani in generale subirono un politicidio. È difficile trovare un siriano che non abbia conosciuto l’apparato di sicurezza del regime: c’è chi è stato convocato da uno dei bracci del tentacolare arcipelago della sicurezza, chi è stato sottoposto a un’“indagine di sicurezza” mentre era

all’università, o quando ha fatto domanda per un lavoro o per il passaporto. Il famigerato “muro della paura” è paura interiorizzata, e prende la forma di una barriera solida che separa le persone, a volte perfino all’interno della stessa famiglia.

Ma la prigione è solo una componente: tortura, stupro, massacri e sparizioni sono altri metodi di politicidio, sempre nella totale impunità degli esecutori.

La stessa parola “prigione” può essere fuorviante nel contesto siriano. Si potrebbe fare una distinzione tra prigioni esterne e prigioni interne, in parallelo con quella tra uno stato esterno e uno stato interno (il primo è essenzialmente il governo, che non ha un vero potere; il secondo è un complesso politico, economico e di sicurezza che rappresenta la vera sede del potere). Le prigioni esterne sono quelle in cui i parenti sanno dove si trovano i detenuti, e magari possono anche andarli a trovare regolarmente. In queste carceri le punizioni fisiche sono rare. I detenuti delle prigioni interne invece sono completamente separati dal mondo: il luogo in cui si trovano resta sconosciuto alle famiglie, che non sanno neppure se sono vivi o morti. In queste carceri i detenuti affamati e disperati sono torturati a caso. In realtà non sono affatto carceri, ma campi di tortura e sterminio.

Qui sono stati rinchiusi molti islamisti. Negli anni di Hafez al Assad il carcere interno era Tadmor, nell’epoca di suo figlio Bashar (al potere dal 2000) è Saydnaya. Muslimiyah e Adra sono prigioni esterne. Le persone sono incarcerate anche nei rami dell’apparato di sicurezza, per settimane, mesi o anni. Il segretario del partito comunista Riad al Turk passò diciassette anni e mezzo in un posto simile. Dopo la rivolta del 2011 anche questi sono diventati campi di morte.

In pratica dopo il 2011 il sistema delle prigioni interne è diventato la norma. Oggi i detenuti possono essere persone comuni, non sono per forza affiliati o simpatizzanti di partiti politici. La terribile storia di Omar Alshogre merita di essere vista e ascoltata da tutti (su YouTube ci sono moltissimi video su di lui). Questo adolescente del villaggio di Al Bayda nel governatorato di Tartus (dove nel maggio del 2013 circa 250 civili furono trucidati da miliziani vicini al regime) è finito in prigione non meno di sette volte. L’ultima volta ha passato tre anni nel famigerato carcere di Saydnaya. È stato liberato solo dopo che sua madre ha pagato 20mila dollari a un ufficiale della sicurezza. Suo padre, due suoi fratelli e molti cugini sono stati uccisi in massacri o sotto tortura in prigione. Oggi Alshogre ha 25 anni ed è al suo primo anno alla Georgetown university a Washington, negli Stati Uniti.

Per chi non conosce bene la politica siriana in epoca baathista, vale la pena di ricordare un’altra istituzione politicida del paese: il cosiddetto Fronte progressista nazionale, creato nel 1972, ufficialmente come federazione di partiti e associazioni per la partecipazione politica. In realtà non ha fatto altro che produrre una forma parallela di morte politica, che si aggiungeva a quella dei centri di detenzione. Cito questa inutile istituzione (che aveva il solo scopo di sottomettere tutti i partiti al potere) per dire che la Siria in generale era un’immensa prigione anche prima della rivolta del 2011. Nessuno viveva fuori da questa prigione, neppure i fedelissimi del regime.

Da una cella all’altra

Sembra che la metafora dell’immenso carcere sia stata introdotta dopo che tante persone erano state rilasciate. Implica una vasta esperienza in prigioni più piccole, in cui siriani di varie estrazioni hanno trascorso anni. Ma significa anche che i prigionieri non sono mai rilasciati davvero: la loro scarcerazione non è altro che un passaggio a una cella molto più grande. Il regime stesso rappresenta così la situazione, parlando di “amnistia presidenziale” ogni volta che qualcuno esce di prigione. Non sei fuori dal carcere perché è un tuo diritto, ma perché il misericordioso e paterno presidente si è degnato di graziarti.

Questo significa anche che uscire dal carcere non è una storia di libertà, o una vittoria di chi lotta per una Siria senza prigionieri politici. Il carcere non è più un’eccezione, un’esperienza infelice che colpisce una minoranza di persone. È diventato la regola, la legge generale sotto cui vive l’intera popolazione.

L’immagine della grande prigione fotografa bene la condizione siriana del politicidio. Ma questa condizione sembra esistere anche nel contesto egiziano. Nel suo ultimo libro, Hizr mkamkim, il giovane scrittore ed ex detenuto egiziano Ahmed Naji si riferisce al suo paese come a una grande prigione. Le strutture dell’immaginario politico tendono a essere identiche nel mondo arabo.

Dopo la rivolta siriana il complesso politicida di detenzioni, torture, stupri, massacri e sparizioni è diventato ancora più brutale. Si è trasformato in quella che Jules Etjim chiama “tanatocrazia”, il governo per mezzo della morte violenta dei governati. L’esperienza siriana dell’ultimo mezzo secolo non appartiene quindi alla categoria generale dell’oppressione, o della dittatura, e neppure alla forma post-stalinista del totalitarismo sovietico. Appartiene piuttosto alla categoria dello sterminio, quella della Germania nazista e della Russia stalinista. Questo è importante, perché prima della rivolta tendevamo a pensare alla Siria come a un regime semitotalitario, come alla Germania Est durante il comunismo. Ci sono voluti anni, dopo la rivoluzione, per ripensarci. E ancora non c’è una narrazione che inserisca la Siria tra gli stati genocidi e stermina- tori. Questa linea di pensiero e di sensibilità merita più attenzione da parte dei siriani della diaspora.

L’idea di una grande prigione, e di una reclusione a vita, dev’essere tenuta a mente per capire l’immenso esodo siriano cominciato nel 2013. Questo esodo è avvenuto quando si è definitivamente chiusa la finestra di speranza che per un anno o due era stata aperta dalla rivolta siriana. Circa il 30 per cento della popolazione ha lasciato il paese ed è certo che altri ancora se ne andrebbero se potessero. Il paese è diventato la patria di chi è senza casa né speranza, e senza la minima promessa di giustizia. Cinquant’anni senza un cambiamento, un’eternità.

Quello che accomuna i vari luoghi del- la geografia siriana del terrore è la negazione di qualunque prospettiva. Non ci sarà mai un processo o ci sarà solo dopo molti anni di detenzione. E anche quando si riceve una condanna, non è detto che si sarà rilasciati una volta scontata. Nella Si- ria di Assad il carcere non è mai stato un’istituzione legale. È un’istituzione politica, e l’intrinseca imprevedibilità ne è parte integrante. Il regime è progettato in modo da negare alla popolazione la capacità di prevedere e pianificare il proprio futuro, ricoprendo il ruolo di una divinità indecifrabile. Negare agli altri la possibilità di sapere cosa gli succederà è sempre stato un metodo potentissimo di politicidio. Ha un impatto distruttivo sulle famiglie e sui legami sociali, oltre al suo fardello di disperazione.

Passato e futuro

Concludo tornando alle osservazioni fat- te all’inizio, per dare un’idea della struttura del tempo nella grande prigione. Le osservazioni danno l’impressione di un tempo lento, segnato dall’assenza di cambiamento. In realtà, l’abad (eternità) siriana è ottenuta attraverso il processo del tabeed (rendere eterno). Ci sono grandi differenze tra regimi sterminatori e “meramente” oppressivi, e la politica dell’eternità ne è un esempio fondamentale. In arabo c’è un nesso etimologico tra abad (eternità) e ibada (sterminio), a sostegno dell’ipotesi che restare per sempre al potere è impossibile senza la minaccia permanente di massacri sempre più feroci. Questa forse è un’ulteriore differenza tra la politica di sterminio e i governi “meramente” dittatoriali.

Tramite l’abad e la grande prigione, la tanatocrazia degli Assad ha creato possibilità prima inimmaginabili di politici- dio, cosa che ha già rafforzato altri despoti al potere in Medio Oriente, indebolendo ancora di più i movimenti popolari. L’Egitto di Abdel Fattah al Sisi ne è un esempio.

In questi 57 anni i siriani (il 96 per cento dei quali ha meno di 60 anni) hanno vissuto uno strano presente: da un lato gli è impossibile anticipare il futuro e gli è negata qualunque promessa di cambiamento, e dall’altro gli è impossibile perdonare, non solo perché nessuno gliel’ha chiesto, ma anche per la natura impunibile dei crimini commessi contro di loro (per usare le parole di Hannah Arendt). È come essere perseguitati dai due angeli della storia di Walter Benjamin: uno che impedisce al passato di passare, e l’altro che impedisce al futuro di arrivare. È questa la struttura del tempo nelle prigioni interne o assolute, in cui lo spazio è escluso dal mondo, e il tempo pe- sa in modo schiacciante sui detenuti.

Tuttavia non è una questione di assenza di cambiamento in Siria, ma piuttosto di assenza dei siriani dal cambiamento. Nell’ultimo decennio la Siria è cambiata molto più di quanto noi volessi- mo, e più di quanto il regime potesse immaginare. E il processo di cambiamento è ancora in corso. Più inquietante di questo cambiamento è l’insidiosa continuità della macchina dello sterminio, e il fatto che non possiamo promettere a noi stessi, né sperare che qualcuno ci prometta, che le nostre sofferenze passate siano il peggio ormai alle spalle. Le parole “mai più” in Siria devono ancora essere pronunciate

In Internazionale 12/18 marzo 2021, pp. 54-57