Il debito di solidarietà tra gli Stati d’Europa

EZIO MAURO

Jean Monnet lo aveva detto: “L’Europa sarà forgiata dalle sue crisi”. Già la globalizzazione e il terremoto economico-finanziario della grande recessione ci avevano fatto toccare con mano, attraverso l’evidenza delle cose, l’insufficienza della concezione minimalista di un’alleanza di mercato, di fronte alla portata universale dei fenomeni che dobbiamo fronteggiare: certificando che nessun nazionalismo, da solo, è in grado di reggere alle nuove sfide. Oggi davanti al Covid dobbiamo fare un passo in più, domandandoci se l’Europa a cui chiediamo la soluzione dei nostri problemi ha i fondamenti morali e politici per generare le istituzioni e le soluzioni necessarie a vincere le nuove emergenze che ci assediano. In sostanza: siamo in grado di elaborare una teoria
della crisi, e di essere all’altezza delle soluzioni politiche che ne conseguono?

Sono il virus e il vaccino, due agenti concreti della lotta tra la vita e la morte nelle urgenze della pandemia, che ci pongono questa domanda. Per un anno di fronte all’insidia del contagio, abbiamo aspettato il vaccino come unica soluzione. La Ue, che non ha competenze di governo sulla sanità, perché la responsabilità della tutela della salute, dell’assistenza, delle forniture e dei servizi è degli Stati, ha svolto un ruolo centrale di negoziazione con Big Pharma, allo scopo di garantire sicurezza nell’approvvigionamento, equilibrio nei costi, equità nella distribuzione. Un soggetto sovranazionale, pubblico, è dunque sceso in campo per trattare le condizioni di mercato dei rimedi immunitari con soggetti privati, come le aziende farmaceutiche.

Nasceva così dalla crisi una nuova funzione di coordinamento e di centralizzazione del potere decisionale, in cui la Ue faceva valere il suo peso politico e il suo ruolo di rappresentanza, con una supplenza comunitaria di governo. Oggi vediamo che non funziona la garanzia contrattuale dell’approvvigionamento, sia nelle quantità che nelle tempistiche, e per di più non funziona il criterio di equità nella distribuzione dei vaccini ai singoli Paesi. Ma di chi è la colpa?

Di fronte a queste procedure inedite che surrogano il governo di 27 Paesi in una operazione d’emergenza, mettendo in gioco l’immagine dell’Europa per l’urgenza delle soluzioni, e creando potere, dobbiamo chiederci quali sono i principi ispiratori che muovono la Ue. Secondo la logica e secondo i trattati, sono soltanto due: la sicurezza dei cittadini e la solidarietà tra gli Stati membri dell’Unione. Sulla sicurezza, che è la più antica, naturale ed eterna interpellanza che il cittadino rivolge allo Stato da quando gli ha concesso il monopolio della forza, bisogna rilevare che per la prima volta l’Europa si sente chiamata in causa, e risponde assumendosi una responsabilità concorrente con quella dei governi nazionali, anzi ponendosi addirittura come garante di ultima istanza. Questo impegno dimostra la gravità dell’urto della crisi, e la duttilità pratica della governance europea, pronta ad avvertire il momento in cui i bisogni della popolazione diventano domande politiche.

Sulla solidarietà, invece, il discorso è più complesso. Intanto va tenuto presente che quando parliamo di solidarietà in rapporto all’Europa parliamo di un principio per così dire costituzionale, perché i 12 Paesi fondatori dichiarano a Maastricht nel 1992 che istituiscono l’Unione per “intensificare la solidarietà tra i loro popoli, rispettandone la storia, la cultura e le tradizioni”. Siamo dunque di fronte a un valore fondativo, ispiratore degli atti successivi, riferimento esplicito delle scelte interne e internazionali della Ue, della sua politica estera e di sicurezza, dell’azione contro l’esclusione sociale e la disuguaglianza. Il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea fissa addirittura una clausola di solidarietà, vincolando gli Stati nazionali ad aiutarsi e soccorrersi vicendevolmente in caso di crisi determinate da calamità naturali o provocate dall’uomo, e di attacchi terroristici. Ora possiamo dire che negli anni precedenti alla crisi l’impegno di solidarietà tra i Paesi della Ue è stato inteso in forma riduttiva, come una garanzia di equilibrio nella ripartizione degli oneri, senza un vero vincolo politico e morale, o almeno di principio. Tanto che quando si è dovuto affrontare un problema che è in sé politico, morale e di principio, come l’afflusso massiccio dei migranti, il criterio senz’anima della ripartizione non ha tenuto, ma è saltato per aria: e ha lasciato gli Stati meridionali soli davanti al migrante che sbarcava sulle loro coste, cercando con ogni evidenza un’Europa che si voltava dall’altra parte.

Sono dunque gli Stati i veri titolari del debito di solidarietà di cui paghiamo il costo. Dai migranti alla salute, abbiamo assistito infatti prima al blocco di 19 milioni di mascherine all’Italia, al ricatto di Polonia e Ungheria che hanno tenuto in ostaggio con il loro veto il bilancio Ue e il Recovery Fund per il rifiuto di vincolare le risorse di sostegno per i singoli Paesi al rispetto dello Stato di diritto: pretendendo in pratica il riconoscimento del loro nuovo statuto di regimi post-democratici, una dispensa dai comuni valori di libertà, una specie di licenza dispotica nel mezzo dell’Europa.
Oggi vediamo l’Austria che guida la protesta di sei Paesi dell’Est e dei Balcani che contestano il metodo di ripartizione dei vaccini, si considerano danneggiati dalla distribuzione e chiedono di ridiscutere le quote, dopo che già nei mesi scorsi il cancelliere Kurz aveva attaccato la Ue, colpevole di aver allestito un «bazar» di vaccini. Scopriamo dunque che anche il principio “costituzionale” di solidarietà può essere contestato, denunciato, discusso e negoziato, come se valesse meno di un sacro parametro economico-finanziario, e fosse un semplice artifizio retorico da recitare nei preamboli storici e da dimenticare nella politica quotidiana. Ma i preamboli, coi loro principi, sono scritti proprio per ancorare le istituzioni al rispetto di determinati valori anche quando le contingenze avverse indicano strade più comode, meno impegnative, corrive con lo spirito dei tempi.

Ci si riconosce in un’Unione perché si è d’accordo su questi valori fondativi, di cui le politiche sono una traduzione mediata con la realtà, non al contrario perché si negoziano ogni volta i valori per adeguarli alle politiche del momento. Questo accade perché la solidarietà in campo europeo è rimasta un principio astratto a cui non si è data una base giuridica e un valore politico. E tuttavia in questo quadro la Ue davanti alla crisi pandemica si è fatta carico di una politica solidale in 7 punti, dal Sure, i 100 miliardi di sostegno all’occupazione e ai lavoratori colpiti dalla crisi, al fondo di 200 miliardi della Banca europea per gli investimenti a favore delle piccole e medie imprese, al Meccanismo europeo di stabilità, con prestiti fino a 240 miliardi, al Recovery, alla flessibilità sugli aiuti di Stato, al re-indirizzo dei fondi strutturali disponibili verso la lotta al coronavirus e il sostegno alla ripresa, alla sospensione del Patto di stabilità: che è temporanea, ma insieme con le altre misure conferma la profezia di Monnet, con la crisi che modella la politica, le governance e le istituzioni, fino ad arrivare consensualmente all’impensabile mutualizzazione del debito.

Tra i deficit immunitari con cui facciamo i conti, spaventati, c’è dunque anche il deficit europeo di solidarietà, frutto di questi anni difficili, imputabile a noi cittadini, ai nostri Paesi, alla politica nazionale, ben più che all’Europa. Eppure è qui il nucleo del nuovo patto tra la democrazia e i cittadini che bisognerà scrivere dopo il virus, perché è qui la radice del prossimo equilibrio sociale,
del nuovo welfare. La Ue può guidare gli Stati, se riconosce che il vincolo di solidarietà nasce quando c’è un vincolo di comunità, e quindi una cultura solidale è alla base di un’identità europea ancora in formazione.

in “la Repubblica” del 26 marzo 2021