Siria. Un decennio di guerra cancella tesori millenari

Pietro Del Re

Non si contano i musei depredati, le antiche moschee bombardate e i siti archeologici saccheggiati dai tombaroli nell’apocalisse culturale che ha funestato la Siria con una serie di furti e distruzioni così devastante e capillare che gli esperti ancora faticano a valutare l’entità dei danni. Nei dieci anni di guerra civile appena trascorsi, l’antica Palmira è stata gravemente ferita dagli islamisti, nel Krak dei Cavalieri eretto dai crociati nel XII secolo hanno combattuto ribelli e lealisti mentre un terzo degli edifici siriani è stato sventrato dai bombardamenti. Dopo un conflitto che ha già provocato quasi 400mila morti, 1,5 milioni d’invalidi e 12 milioni tra profughi e sfollati, si direbbe che soltanto il presidente Bashar al Assad sia rimasto solidamente in piedi, governando però un popolo affogato nella miseria e che vive ormai su un tappeto di macerie. Il regime di Damasco è sopravvissuto al conflitto, ma il Paese è imploso.

Culla della civiltà, la Siria è stata greca, romana, ha vissuto sotto il califfato degli omayyadi e sotto l’impero bizantino, il che spiega le sue straordinarie ricchezze storico-artistiche, che dal 2011 sono in buona parte o molto malmesse o perdute per sempre. Secondo uno studio pubblicato dal Syrian center for policy research, il Paese ha visto dissolversi due terzi del suo prodotto interno lordo passando dai 50 miliardi di euro del 2010 ai 17,5 miliardi del 2019. Il totale delle perdite accumulate negli anni di guerra si aggira invece intorno ai 435miliardi di euro. Ma assieme a questa catastrofe economica, non accadeva da generazioni che tanti danni fossero arrecati al patrimonio siriano, dalla parziale distruzione del mausoleo della moschea Khaled ben Walid di Homs il 25 luglio 2013, a quella dell’elegante minareto della Grande moschea degli omayyadi di Aleppo il 16 aprile dello stesso anno.

Quanto a Palmira, la Venezia del Deserto, fu conquistata nel maggio 2015 dai tagliagole dello Stato islamico, i quali, dopo aver picconato un gran numero di statue antiche, fecero del suo museo il loro tribunale e la loro prigione. Alcune di quelle sculture potranno essere restaurate, ma molte sono state ridotte in briciole di marmo. Tra le splendide rovine di quei templi, il moderno Califfato mise in scena le sue esecuzioni pubbliche. Ed è lì che fu esposto per tre giorni il corpo decapitato del celebre archeologo Khaled al Assaad, colui che anche sotto tortura non svelò dove aveva fatto trasferire le più preziose sculture del museo. Nel 2017, poco prima che le truppe di Damasco, spalleggiate dall’aviazione di Mosca, riuscissero a espugnare Palmira, i miliziani di Al Baghdadi fecero esplodere con il tritolo il tempio dedicato alla divinità mesopotamica Bel e quello dedicato alla divinità cananea Baalshamin.

Oltre a Palmira e Aleppo, anche Damasco e Bosra, che fu capitale del regno nabateo, hanno subìto gravi perdite, così come gli antichi villaggi nel nord, chiamati “città morte”, o come l’insediamento greco- romano di Apamea, sulle rive del fiume Oronte, recentemente saccheggiato da tombaroli islamisti. Secondo l’ex ministro dei Beni culturali, Maamoun Abdel Karim, è andato perduto almeno il 10% dei beni archeologici siriani. «Negli ultimi duemila anni, non si era mai raggiunto un tale grado di devastazione, se non quando arrivarono i mongoli di Tamerlano, che agli inizi del XV secolo resero la Siria un inferno. Ma allora i responsabili del caos furono gli invasori stranieri, mentre stavolta sono i siriani stessi».

La parigina Societé syrienne pour la protection des antiquités ha calcolato che il contrabbando dei quarantamila reperti trafugati in questi anni ha generato milioni di dollari, finiti sia nelle tasche dei miliziani jihadisti sia in quelle dell’esercito del regime. Guarda caso, per ottimizzare i guadagni in ogni città siriana conquistata l’Isis apriva un dipartimento per gestire gli “scavi” archeologici e per poi smerciare illegalmente le antiche monete, le statuine o i frammenti di mosaici appena dissotterrati. Diversi Paesi sono intervenuti per arginare quei traffici sul mercato nero dell’arte, e in

alcuni casi è anche stato possibile restituire le opere rubate in Siria o in Iraq, ma si è trattato solo di pochi pezzi: nulla se paragonato all’enorme bottino dei tombaroli.
Intanto, a cominciare dalle grandi organizzazioni internazionali, c’è chi pensa alla ricostruzione del Paese, ma salvo il rifacimento delle principali strade e autostrade, e salvo il restauro dell’antico bazar di Aleppo finanziato dall’Aga Khan, i lavori sono ancora fermi. Per una semplice ragione, le casse dello Stato sono vuote perché non c’è più turismo, perché i pozzi di petrolio sono oggi sfruttati dai curdi nel Nord-Est del Paese e perché le miniere di fosfati sono state lasciate ai russi in cambio del preziosissimo aiuto militare fornito.

Tutto ciò ha provocato una pesante svalutazione della lira siriana (300 % in un solo anno), il che ha fatto volare i prezzi dei beni di prima necessità costringendo il governo a tagliare i sussidi per il pane e la benzina e creando di conseguenza file chilometriche davanti ai forni e alle stazioni di servizio. Eppure, è verosimile che alla fine della primavera il presidente Assad sarà rieletto per la quarta volta. Lui che fino a qualche anno fa tutti prevedevano che sarebbe presto finito in galera, in esilio o in una cassa da morto.

in “la Repubblica” del 15 marzo 2021