La condizione, già precaria delle donne, peggiorata dalla crisi della pandemia

FIORELLA FARINELLI

Sherecession significa recessione che riguarda «lei», un nome coniato negli Usa per dire che è sulle donne che si abbattono i peggiori effetti economici della pandemia. Sta succedendo anche da noi. I dati Istat sull’andamento dell’occupazione nello scorso dicembre, un mese di solito particolarmente frizzante per straordinari e lavori aggiuntivi o stagionali, dicono che questa volta si sono invece persi 101mila posti, ben 99mila occupati da donne. Non c’è, purtroppo, da sorprendersi. In tutto il 2020 su 4 posti di lavoro perduti quelli «in rosa» sono stati 3.

Non è stato sempre così nelle recessioni. In quelle provocate dalle guerre mondiali, per esempio, fu soprattutto con il lavoro femminile che vennero coperti i posti di lavoro lasciati vuoti dai maschi al fronte, dalle morti e dalle invalidità dei militari. Perfino nell’industria pesante e nei trasporti pubblici, ambiti e professioni tradizionalmente riservati all’altra metà del cielo (ma che emozione, per l’emancipazionismo femminile di quei tempi, quelle foto in bianco e nero di signore alla guida dei tram, fiere delle nuove responsabilità e di un’allora insperata autonomia). Anche in tempi più recenti, come nella grande crisi del 2008, a liquefarsi furono soprattutto molti lavori prevalentemente maschili nelle costruzioni e nell’industria che gli gira intorno, mentre fu il comparto dei servizi a riprendersi per primo e a sviluppare nuove attività, con molti nuovi posti di lavoro sopratutto femminili (oggi in tutto il mondo, segnala l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il 42% del lavoro nel settore dei servizi pubblici e privati lo fanno le donne).

Ma con la pandemia la storia è tutta diversa. È senza dubbio il lavoro femminile ad essere il più colpito, in Italia più acutamente che altrove. Negli Stati Uniti e in Germania le statistiche dicono infatti che gran parte delle donne che hanno perso l’occupazione non vanno ad ingrossare le file delle «inattive», ma ne cercano subito un’altra, anche utilizzando le opportunità formative e i supporti pubblici che agevolano le transizioni. Da noi invece sono tante quelle che, perso il lavoro, stanno sparendo dal mercato del lavoro. Un fenomeno, fin troppo noto alle donne italiane, che i sociologi chiamano «scoraggiamento». Quando la situazione è così difficile, come in tante aree del Mezzogiorno, che non vale neppure la pena di provarci. Sappiamo cosa c’è dietro. Un mercato del lavoro più «rigido » che altrove, l’assenza di politiche attive, i Centri per l’Impiego che non funzionano, la minore diffusione tra le donne delle competenze professionali, tecniche, digitali che servirebbero. E soprattutto i problemi, particolarmente acuti nel nostro paese, di scarsa conciliabilità del lavoro con gli obblighi di cura. I figli, i nipoti, gli anziani, i malati, i disabili di famiglia, e poi un’organizzazione domestica in gran parte sulle loro spalle, con una media di 21 ore settimanali di lavoro, anche per le donne impiegate a pieno tempo, contro le 6-7 dei maschi. L’insufficienza, la scarsa qualità, i costi dei servizi sociali e sociosanitari, assai diffusi in Italia, colpiscono le donne due volte. Perché offrono molti meno posti di lavoro del necessario, e proprio in un comparto più coerente con le propensioni e le professionalità femminili. E perché sono proprio quei limiti a stressare la vita delle donne.

il Gender Gap

La situazione del lavoro femminile in Italia era difficile già prima della pandemia.
Nel 2019, nonostante i progressi del decennio precedente trainati da una partecipazione delle ragazze all’istruzione e da indici di successo scolastico e universitario sempre più alti, a partire dagli anni Ottanta, il tasso di occupazione femminile era ancora pari solo al 50,1% (che vuole dire metà delle donne tra i 16 e i 65 anni fuori dal lavoro, almeno quello stabile e regolare, mentre in altri paesi europei l’area delle escluse è sotto il 40%). Di quasi 18 punti più basso di quella maschile, e con differenze enormi tra Nord (60,4%) e Sud (33,2%). Con un indice di disoccupazione esplicita (11,1%) tra i più alti dei paesi avanzati. In mezzo, le vaste praterie dello «scoraggiamento» che congela la ricerca del lavoro, delle occupazioni in nero, intermittenti, precarie, malpagate. Per Gender Gap, cioè per divario tra lavoro maschile e femminile, l’Italia è inchiodata nell’Europa- 20 in un non onorevole 17° posto, troppo in basso per un paese ricco, evoluto, democratico.

I redditi da lavoro delle donne sono mediamente inferiori del 25% a quelli maschili, il part time riguarda per il 73,2% il lavoro femminile (ed è involontario nel 64% dei casi), ci sono settori in cui le donne ancora oggi entrano a fatica e solo con titoli di studio e competenze professionali di livello alto. Ci sono ancora discriminazioni nelle assunzioni, nei licenziamenti, nelle carriere (è di qualche anno fa la legge che vieta di assumere le donne con la riserva di sciogliere il rapporto di lavoro se interviene una gravidanza: ma ai tribunali di casi così ne arrivano ancora tanti), e nei trattamenti salariali inferiori a parità di prestazione. Ma c’è, bisogna ammetterlo, anche un troppo frequente ritrarsi delle donne dal lavoro perché ritenuto o perché effettivamente inconciliabile con la maternità, spesso perché il reddito lavorativo è troppo basso rispetto alle spese che si dovrebbero sostenere per farsi sostituire nel lavoro di cura o per pagare i servizi educativi per l’infanzia. Secondo l’Ispettorato del Lavoro, nel 2019 a dimettersi dal lavoro dopo il parto sono state 37.611 donne. Ma è il confronto con le medie europee a rivelare, oltre ai condizionamenti oggettivi della maternità sul lavoro femminile, la presenza di ostacoli di altra natura, anche culturali. Se le donne italiane tra i 20 e i 49 anni senza figli lavorano nel 62,4% dei casi (contro un valore europeo del 77,2%) e se quelle con un figlio lo fanno nel 57,8% dei casi (contro l’80,2% nel Regno Unito, il 78,3% in Germania, il 74,6% in Francia), nei maggiori paesi europei le donne con due figli lavorano di più delle italiane senza figli. Sul mercato del lavoro femminile pesano dunque anche antichi stereotipi, pregiudizi di genere, ritardi culturali di cui le donne sono vittime, anche quando li interiorizzano.

Con conseguenze negative di vario tipo, tra cui la povertà dei nuclei familiari numerosi in cui a lavorare è un solo adulto e la scarsa autonomia delle donne in famiglia. Non c’è dubbio, inoltre, che è in questo intreccio di condizionamenti oggettivi e soggettivi che si è generata anche una crescente rinuncia alla maternità. Tra i suoi guai e le sue anomalie, l’Italia vede anche un collasso della natalità più grave che in altri paesi. Che fa saltare molti equilibri nel welfare e che impoverisce la società delle risorse umane più giovani. Con l’aggravante, negli ultimi anni, delle pesanti limitazioni a ulteriori flussi migratori e dal progressivo allinearsi dei comportamenti riproduttivi delle famiglie straniere a quelli delle coppie autoctone, che non «compensano» più con i bambini con back ground migratorio le culle vuote degli italiani.

una grandinata senza fine

Su tutto ciò la pandemia si sta rovesciando come una grandinata di cui non si vede la fine. Sono le regole del «distanziamento » a tagliare le gambe proprio ai settori dove l’occupazione femminile è più alta.
Sono in crisi il turismo e l’alberghiero, il tessile e l’abbigliamento, l’estetica e il lusso, i servizi commerciali «non essenziali», i ristoranti, i bar, le mense aziendali e quelle scolastiche e universitarie, trascinando con sé – grazie anche allo sviluppo emergenziale (ma quanto definitivo?) del cosidddetto smartworking – un insieme di altri servizi, dalla pulizia degli uffici alle lavanderie per gli hotel. Appesantisce il quadro il fatto che proprio in gran parte di questi settori sia più diffuso il lavoro stagionale, intermittente, a tempo determinato, spesso del tutto o parzialmente in nero, come quello, anch’esso prevalentemente femminile, del lavoro nelle famiglie, dalle colf alle badanti.

Lavori meno protetti, dunque, più esposti ai licenziamenti, non tutelati dalla cassa integrazione o da altri ammortizzatori sociali. Come del resto parte consistente del lavoro autonomo, anche nei comparti degli spettacoli e della cultura, dai cinema ai teatri. Tutto perduto, non si sa per quanto, e neppure se ci sarà un recupero pieno quando ci saremo finalmente liberati dalla pandemia. Non tutto, è molto probabile, potrà tornare come prima, nei consumi, nei viaggi, nel turismo, nel modo di lavorare. Si sono aggiunti, inoltre, ulteriori ostacoli al lavoro femminile – alla ricerca attiva dell’occupazione, alla formazione per un nuovo lavoro – determinati dai lunghi mesi e settimane in cui le scuole sono chiuse, dai bambini e ragazzi confinati in casa alle prese con le piattaforme per la didattica da remoto, dall’impossibilità di ricorrere al prezioso supporto dei nonni. Un incubo la vita quotidiana nelle case più piccole, a contendersi gli spazi per lo studio, il lavoro, lo smartworking, tanto più se ci sono malati o persone con bisogni speciali rimasti senza aiuto. Altro che «scoraggiamento », è una valanga di ulteriori stress che è piombata su tante donne. Anche per leimprenditrici, segnala una recente inchiesta di Unioncamere, il clima si è fatto pessimo perché sono le donne, si sa, ad essere cons iderate meno affidabili dalle banche che dovrebbero concedere il credito necessario a resistere. Con in più le difficoltà, in molti casi, di minori competenze nel campo delle attività, di sicuro sviluppo, fortemente connotate dal digitale e da altre innovazioni tecnologiche. Ci saranno, per le donne e anche per tanti uomini che dovranno nei prossimi mesi passare ad altri lavori, efficaci programmi di aiuto anche formativo?

contrastare gli stereotipi di genere

La via d’uscita non sono, né saranno, solo gli incentivi alle assunzioni femminili, e neppure solo i bonus o i voucher che vanno e vengono, sempre diversi, da un governo all’altro. Occorrono sostegni economici e fiscali stabili per le famiglie con figli, servizi educativi e scuole a tempo pieno su cui poter contare, congedi parentali generosi, flessibilità di tempi ed orari di lavoro, nuovi servizi sociosanitari per anziani, malati, disabili. E poi anche strategie educative di contrasto degli stereotipi di genere che condizionano le scelte formative, per incoraggiare e orientare le ragazze a studi con cui acquisire le competenze culturali e professionali che consentano di accedere a ogni comparto del lavoro. Dalle «rivoluzioni» digitale e ambientale, così come dall’indispensabile sviluppo dei sistemi sanitari e di un nuovo welfare, nasceranno nuovi fabbisogni professionali, nuovi profili di competenze, e nuovi lavori. In cui l’intelligenza e le sensibilità femminili saranno preziose, se sorrette da appropriati strumenti conoscitivi.

Non si dovrebbe, ancora una volta, perdere il treno. Quanto ai maschi, e al diffuso maschilismo che limita e ostacola le libertà femminili in casa e nel lavoro, anche qui ci vorrebbero apposite strategie «educative». Ma è forse il campo più difficile e problematico, anche in una scuola popolata soprattutto da insegnanti donne, anche dentro le famiglie. Non è affatto un dettaglio per il futuro di un paese come il nostro.

in “Rocca” n 5 del 1 marzo 2021