Istruzione e futuro. Cosa serve alla scuola?

MAURO PIRAS

Idee, necessità, proposte per una seria politica scolastica e per un “patto per l’istruzione”.

Il Presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi sta concludendo le sue consultazioni per la formazione del governo. Si apre così una fase politica fondata su nuovi equilibri in Parlamento. Il governo che nascerà, che sia formato da politici o tecnici, sarà ben diverso dal precedente. Quindi anche il ministro dell’Istruzione. Che cosa serve alla scuola, in questo passaggio?

Un ministro forte e un patto per la scuola

In primo luogo, serve un ministro o una ministra che abbia peso politico. Che sia sostenuto con determinazione da tutto il Consiglio dei ministri, che abbia la forza e l’autorità di far pesare le proprie decisioni e di farle durare. Non deve più capitare che la politica del governo sconfessi di fatto le decisioni del responsabile dell’Istruzione.Inoltre, poiché questo governo nascerà con una maggioranza “trasversale”, bisogna fare un “patto per la scuola” che vada oltre le contrapposizioni di parte.

La scuola italiana è stata troppo spesso vittima dei regolamenti di conti tra forze politiche: chi va al governo disfa quello che è stato fatto dai suoi predecessori, impedendo così la realizzazione di un processo riformatore o anche solo la sua valutazione. Se vogliamo salvare la scuola, dobbiamo garantire che le riforme avviate abbiano una certa base di condivisione tra i partiti, e che quindi durino nel tempo. Un governo come quello che sta per nascere potrebbe essere l’occasione per farlo.

Gestire l’emergenza

Dal punto di vista dei contenuti di politica scolastica, ci sono due piani: la gestione dell’emergenza e la visione di lungo periodo.Per la gestione dell’emergenza, il nuovo governo deve garantire alcune cose che il precedente non ha saputo garantire. Le misure di sospensione o ripresa della didattica in presenza devono essere prese con un certo anticipo, con una programmazione e soprattutto devono durare, senza ripensamenti e continui cambi di marcia. Le misure prese devono essere il più possibile omogenee sul territorio nazionale: devono essere conclusi accordi con le regioni che impediscano le fughe in avanti e le eccessive differenziazioni a cui abbiamo assistito in questi mesi.Ma soprattutto, bisogna affrontare l’emergenza con strumenti di emergenza. Occorre un piano di valutazione degli apprendimenti degli studenti italiani, per ogni tipo di scuola, al fine di avere un’idea precisa degli effetti del ricorso prolungato alla didattica a distanza: è vitale quindi fare le prove Invalsi, quest’anno, e metterle al centro delle successive iniziative. Serve un piano nazionale di recupero degli apprendimenti; bisogna mettere in campo misure che permettano di riprendere e consolidare gli apprendimenti degli studenti, soprattutto nei gradi di scuola e nelle aree del paese che hanno avuto maggiori interruzioni dell’attività in presenza: rimodulazioni del calendario scolastico (come proposto dal gruppo “Condorcet. Ripensare la scuola”), inizio anticipato del prossimo anno scolastico, misure di tutoraggio individuale ecc.

Vanno anche presi dei provvedimenti che garantiscano la continuità didattica fin dal primo settembre 2021. Ci vuole quindi il coraggio per prendere decisioni eccezionali, senza adagiarsi sulla routine amministrativa, come purtroppo è accaduto finora.Una visione condivisa e di lungo periodo.

Infine, la vera politica scolastica, cioè gli interventi strutturali di cui ha bisogno il nostro sistema di istruzione e formazione. Il cosiddetto Recovery Plan è un’occasione per pensare una politica scolastica di ampio respiro, che metta mano ai problemi più importanti. Se, come detto sopra, si ha la forza di realizzare un “patto per la scuola” trasversale alle forze politiche, bisogna costruire un consenso intorno ad alcune riforme essenziali.Il primo problema è la dispersione scolastica, che colpisce soprattutto nei primi anni delle scuole superiori, in piena scuola dell’obbligo: va superato lo squilibrio tra la fine del primo ciclo, a 14 anni, e la fine dell’obbligo, a 16 anni, che spiega molto di questa dispersione.

Un secondo terreno di intervento riguarda le forti divaricazioni territoriali: sia i livelli di apprendimento che la dispersione variano molto da regione a regione, servono interventi mirati che permettano di investire nelle regioni più svantaggiate, soprattutto al sud. Il settore educativo da zero a sei anni continua a non essere integrato, l’offerta dei nidi sul territorio nazionale è carente e molto diseguale. La formazione degli adulti in Italia è ancora debolissima, e questo incide sul tessuto civile ed economico del nostro paese. L’istruzione professionale è entrata in una crisi irreversibile, ma non siamo riusciti a sviluppare un sistema adeguato di formazione professionale su tutto il territorio nazionale. La formazione tecnica superiore, parallela alla formazione universitaria, è debolissima.

A questi problemi di ordinamento, si aggiungono altre urgenze relative al personale scolastico: è indispensabile definire una volta per tutte un percorso di formazione iniziale e reclutamento dei docenti, che attualmente non esiste e negli ultimi vent’anni è cambiato quattro o cinque volte; bisogna garantire concorsi regolari; bisogna costruire una carriera dei docenti legata al merito e non solo all’anzianità.

Questi sono alcuni dei temi più urgenti su cui intervenire in una prospettiva di ampio respiro, a partire dall’occasione offerta dai fondi europei: che le forze politiche si mettano intorno a un tavolo e abbiano il coraggio, per una volta, di progettare un futuro lungo (di almeno trent’anni) per la nostra politica scolastica, definiscano i problemi e fissino un’agenda, che venga però salvaguardata nel tempo, senza essere vittima dei cambi di maggioranza e dei regolamenti di conti tra partiti.

in Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2021