Arabia Saudita. Città hi-tech e lavoratori stranieri schiavizzati

GIORDANO STABILE

Erano le quattro del mattino, nel tepore della tenda nel deserto, Mohammed bin Salman sorseggiava l’ennesimo caffè al cardamomo e guardava un film di fantascienza sul canale Mbc. Treni sospesi sfrecciavano in una megalopoli del futuro, fra grattacieli e fattorie pensili. Di colpo l’idea. Era così che doveva svilupparsi Neom, il progetto di città tecnologica affacciata sul Mar Rosso. Una città in “orizzontale”, lunga 170 chilometri, con una spina dorsale fatta di ferrovie veloci e metrò, senza più auto: «Investiamoci 100 miliardi». Era nata The Line, il progetto al centro della “Davos del deserto” di quest’anno, un modello per tutto il mondo in cerca di soluzioni alla crisi ecologica, con l’Arabia Saudita al centro. Il colpo d’ala di un principe rinascimentale, per i suoi ammiratori. Per i critici un sogno faraonico, nato «come se si potessero costruire città allo stesso modo che nei videogiochi». Mbs ama decidere alla svelta ed è generoso con chi sostiene la sua missione modernizzatrice.

Nel 2016, quando la sua Vision 2030, cominciava a prendere forma, riceve una telefonata dal magnate giapponese Masayoshi Son, in cerca di finanziamenti per il suo SoftBank Group. Dopo meno di un’ora il principe stacca un assegno da 45 miliardi. «Ho ricevuto 45 miliardi in 45 minuti, uno al minuto», commenterà Son. Il problema, in una monarchia assoluta e priva di un Parlamento, è capire come sono spesi, e con quale efficacia, tutti questi soldi. L’Arabia Saudita è abituata ai megaprogetti, finora con risultati deludenti. Da governatore di Riad, Re Salman, padre del principe, prometteva negli anni Settanta di fare della capitale saudita «la metropoli più avanzata al mondo entro il 1985». Siamo lontani. La prima linea del metrò sarà inaugurata quest’anno.

The Line ha però il merito di aver riportato l’attenzione sulla Future investment initiative e distratto l’opinione pubblica dal nuovo vento che soffia da Washington: lo stop alla vendita di armi, la riapertura dell’inchiesta sull’uccisione di Jamal Khashoggi, il giornalista ucciso e fatto a pezzi nel 2018, secondo la Cia su ordine dello stesso Mbs. La luna di miele con Donald Trump è finita, il principe deve riposizionarsi sulla linea di Joe Biden, e mettere l’accento sull’ecologia può aiutare.

The Line promette di essere a «zero emissioni» e «in armonia con la natura». Peccato ci siano già tribù beduine che vivono là «in armonia» e che si stanno battendo contro la distruzione dei loro insediamenti. Uno dei loro attivisti, Abdul Rahim al-Huwaiti, è stato ucciso dalla polizia lo scorso aprile. Nel «nuovo Rinascimento» non c’è spazio per il dissenso e a Mbs «interessa solo convincere i media, specie occidentali, che farà la storia e cambierà il mondo», come ha sintetizzato Walid alHathloul, fratello dell’attivista per i diritti umani Loujain, incarcerata da quasi tre anni.

The Line è il futuro, forse, per adesso agli abitanti del Regno interessa trovare una casa decente. «Le città saudite – ha picchiato duro il New York Times – sono brutte e polverose, con religiosi conservatori che sovrintendono su burocrati corrotti, in un paesaggio costellato di mega progetti abbandonati». Le riforme procedono tra contraddizioni. Sì al diritto alla guida per le donne, ma condanne per le dissidenti che si sono battute in questo senso, come la stessa Al-Hathloul. Anche i cambiamenti nel mercato del lavoro, dagli aspetti ancora medievali, dove le organizzazioni sindacali sono limitate, segnano il passo. Mbs ha promesso di abolire il sistema della kafala, ma da marzo ci saranno soltanto miglioramenti marginali. Su 32 milioni di abitanti, sei sono lavoratori stranieri e per Human Rights Watch sono quelli più a rischio «di lavoro forzato». Una ricercatrice della ong, Rothna Begum, ha documentato «casi di domestici imprigionati, con i passaporti confiscati, costretti a turni massacranti senza riposi o giorni liberi, soggetti ad abusi fisici e sessuali».

Come negli altri Paesi del Golfo o in Libano la “kafala”, da “kafil”, cioè “sponsor”, regna ancora sovrana. Ai lavoratori è richiesto uno sponsor, un’agenzia o direttamente il datore di lavoro, che paghi una cauzione di migliaia di dollari. Quasi sempre l’imprenditore sequestra loro il passaporto e a quel punto può fare quello che vuole. I casi di suicidi, specie fra le domestiche, sono decine. Questo contribuisce a tenere “basso il costo del lavoro”.

Diversa la situazione nel settore pubblico, con trattamenti di livello europeo. Il salario minimo è di 5300 rial, pari a 1300 euro, mentre per gli stranieri è di 2500, circa 600 euro. Gli occidentali con alte qualifiche, tecnici, ingegneri, manager o giornalisti nelle testate anglofone, possono avere invece paghe superiori a quelle in Europa. La modernizzazione ha però comportato anche l’introduzione delle tasse, prima inesistenti. L’Iva al 15% è stata imposta su quasi tutti i prodotti e il sussidio di 270 dollari al mese per la casa abolito. Più che di The Line è di questo che discutono i sauditi, anche su social sempre più controllati e censurati.

in “La Stampa” del 31 gennaio 2021