Primavere arabe sfiorite. Quelle rivolte degli “ultimi” tradite dall’Occidente

DOMENICO QUIRICO

Sappiamo il giorno e l’ora e il luogo in cui tutto è iniziato. Come nei libri di scuola. Dieci anni dopo possiamo riascoltare le grida, ricostruire i gesti, ripercorrere le strade della vergogna, del dolore, della ritrovata dignità. In un verbale poliziesco scorrono gli slogan, i morti, il tumulto, sclerotici tiranni arroccati nel Palazzo a rodersi di rabbia e di paura. La rivoluzione araba! Possiamo perfino pesarla questa rivoluzione: mettendo sulla bilancia due cassette di mele, tre di pere e sette chili di banane. Come pesano poco i grandi sconquassi della storia. Sì, perché tutto iniziò con un po’ di verdura. Non ci furono assalti a fortezze, nessuna Bastiglia venne smantellata: fu, in fondo, una storia di mercato, una storia di strada. 17 dicembre 2010, a Sidi Bouzid nel centro della Tunisia, un posto di poveri, polveroso e sporco sotto i cieli leggeri dei suoi inverni. Floscio come il regime ipocrita e corrotto del visir che lo governava, Ben Ali. Abbiamo il nome dell’eroe, lo stringiamo forte al cuore: Mohamed Bouazizi, ambulante senza licenza, un ragazzo che ha sconfitto il tiranno.
Pensavamo accadesse solo nelle Mille e una notte. I gendarmi gli requisiscono la merce perché non paga il pizzo, piccola cronaca di un Paese corrotto. Ma poi compare una latta di benzina che il ragazzo si versa addosso e un cerino e una fiammata che lo avvolge: sì, un suicidio, il gesto senza remissione che inchioda tutti e senza cui nulla sarebbe accaduto. E la cronaca nera divampa in Storia.

E dopo? Dopo nei Paesi dove il muezzin grida la preghiera del mattino si sono moltiplicate le piazze in tumulto, Kasserine, Djerba, Tunisi e ancora il Cairo, Bengasi, Aleppo, Homs, Sanaa. Una catena mirabile, esaltante. Le esperienze personali si innestavano senza soluzione di continuità nella più grande storia rivoluzionaria che si andava dipanando. Le città della rivolta erano posti diversi da prima. Una piazza rincorreva l’esempio dell’altra piazza: l’immensa Tahrir voleva assomigliare alla angusta avenue Bourghiba, Homs si specchiava in ciò che accadeva a Bengasi. Nei luoghi delle Primavere esistono paesaggi interiori percepiti solo da chi le ha vissute. Costoro sanno leggere quali drammatici eventi e memorabili sono avvenuti in quel vicolo, davanti a quel caffè o a quel ministero o a quella caserma. Qui fu un corteo memorabile, là una battaglia, qui è morto un giovane ribelle. I luoghi dei massacri conquistano dignità nella loro solitudine, perfino nel brutale sforzo di nuovi e vecchi tiranni per cancellare ogni traccia di eroismi e delitti. Sono luoghi in cui a tornarci, dieci anni dopo, regna l’atmosfera inquietante dei terreni consacrati. La vera rivoluzione è inscindibile dagli atti di uomini concreti che lottano insieme contro regimi, poliziotti, lo Stato e i suoi soldati e complici. Non sono impersonali connessioni di forze storiche ed economiche, di classi, di «immaginari collettivi». Sono uomini in cammino che si riuniscono e si trascinano a vicenda, che sono fatti dalla Storia e la fanno, le loro azioni sono fondate sui loro bisogni che sono concreti quanto loro stessi.

Dopo dieci anni questo non si può cancellare: la primavera araba del 2011 fu una rivoluzione. Non rivolta o congiura. Fu rivoluzione. In Tunisia una generazione, non di intellettuali, ma di disoccupati, di costretti ad arrangiarsi, di sbandati di periferia, sì, anche loro, soprattutto loro, scoprì che il mondo non era fatto per le loro speranze, che l’essere rinchiuso in quel vuoto bruciava in gola, che cercavano aiuto che nessuno poteva dargli. Da quel diciassette dicembre tutto frana.
Dittature decennali che sembravano intoccabili, che promettevano, bugiarde, modernità, a cui noi occidente facevamo ogni giorno gli occhi dolci, si trovano di fronte alla unità del rifiuto. I ragazzi di Tunisi e di Aleppo sapevano quello che non volevano più: era arrivato il momento. Mubarak, Gheddafi, Assad, Ben Ali erano solo nomi diversi di un’idra dalle molte teste, canagliume che si era abituato alla rendita di una politica da avventurieri, pigra e sanguinosa, basata sul disprezzo dell’uomo e della vita umana, un potere fondato sulla paura e la corruzione. Era la conoscenza profonda ma inconsapevole di una identità negativa. La ribellione fu spontanea, confusa, non fu preparata da nessuna forza sotterranea o clandestina. Ma quel disordine apparente celava un ordine che voleva nascere. E non riuscì. Dieci anni dopo, di dimissione in dimissione, una cosa sola i rivoluzionari hanno imparato: la loro radicale impotenza. I regimi sotto cui vivono oggi assomigliano a quelli che avevano sperato di abbattere e non certo alle loro aspirazioni. In Tunisia, come dieci anni fa, sperano di trovare un posto su una barca che li porti, vivi, a Lampedusa. La costituzione nata dalla Primavera è splendida. Ma i governanti che dovrebbero applicarla sembrano usciti dalla nomenklatura di Ben Ali.

In Siria Bashar Al Assad ha vinto la guerra, come tutti gli assassini svelto a lavarsi le mani, in Egitto Al Sisi amministra il non diritto assai meglio che il senescente Mubarak, in Libia si contendono il bottino un generale che aspira a imitare Gheddafi e un prestanome di bande criminali. E noi? Noi occidente li abbiamo traditi. Per dieci anni abbiamo cercato nuovi tiranni con cui riprendere gli affari.

Dove fu l’errore? L’insurrezione araba avanzava senza conoscersi. Lottava nelle strade con lo striminzito catechismo del mai più vivere così. Mancavano i leader, mancavano i partiti, i programmi. Le dittature marcavano con il loro vuoto anche ciò che veniva dopo. Ho parlato con alcuni di quei ribelli. Molti sono approdati a una inerte vacuità, o sono partiti, o sono profughi.
Qualcuno ha pensato di continuare la rivoluzione arruolandosi nel jihad. Ma con un solo colpo d’ala speranza e disperazione li hanno abbandonati. Questi ragazzi nel 2011 si preparavano a vivere, partivano; ma il loro viaggio si è fermato nel vuoto, non sono andati da nessuna parte, non faranno nulla. Riaffiorano con pudore i ricordi della loro superba turbolenza e allora si chiedono: ma in fondo che volevamo? E non se ne ricordano. I ricordi hanno perduto artigli e denti.

in “La Stampa” del 17 dicembre 2020