Smart Working. Il lavoro che verrà

CRISTINA CASADEI

Solo pochi mesi fa chi avrebbe mai detto che nelle tlc i lavoratori dei call center avrebbero operato interamente da remoto? O gli operatori allo sportello della Pa? O anche alcuni operai altamente specializzati che guidano macchine digitalizzate che possono essere controllate a distanza? L’esperienza forzata ed emergenziale che oltre 6,5 milioni di lavoratori hanno fatto durante il lockdown della scorsa primavera ha messo drammaticamente in luce come «l’organizzazione tradizionale del lavoro sia basata su assunti oggi largamente superati e palesemente inadeguati a interpretare l’epoca in cui viviamo – dice il professor Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart working della School of management del Politecnico di Milano -. Per preservare la nostra salute abbiamo dovuto separarci, chiuderci nelle nostre case. Eppure non tutta l’economia si è bloccata: una parte importante delle attività è andata avanti, grazie alla capacità di lavorare, consumare e informarci a distanza con le nuove tecnologie. Durante la pandemia lo smart working ha preservato la nostra salute, ha aiutato a garantire la continuità di business e ci ha insegnato il valore del digitale e del lavoro per obiettivi». Oggi le cose sono in parte cambiate. In settembre sono iniziati i primi rientri nelle sedi uffici e negli headquarter delle grandi aziende, rallentati subito a causa della ripresa della curva pandemica e caratterizzati da una forte attenzione alla salute delle persone. Secondo quanto stima l’Osservatorio, giunto alla sua nona edizione annuale, oggi ci sono più di 5 milioni di smart worker e anche nel post pandemia questi numeri saranno confermati.

LA CURVA DELLO SMART WORKING

I lavoratori da remoto. Dati in migliaia di unità . L’esperienza che imprese e lavoratori hanno fatto, e ancor di più faranno durante i prossimi mesi di gestione dell’emergenza sanitaria, sarà importante per progettare e sperimentare nuovi modi di lavorare e collaborare. L’impatto dell’emergenza Covid-19 sul numero di smart worker è stato fortissimo. Nel 2019 lo Smart Working riguardava circa 570.000 lavoratori , il 20% in più dell’anno precedente. «Erano soprattutto le grandi imprese ad avere iniziative strutturate (58%), mentre restava bassa la percentuale di adozione nelle PMI (12%) e nelle PA (16%)», spiega Corso. Il lavoro da remoto per gli smart worker era svolto, in media, un giorno alla settimana e prevalentemente riservato ad attività di lavoro individuale. L’emergenza Covid-19 ha costituito un radicale punto di svolta: lo smart working è stato adottato come modalità preferibile o addirittura obbligatoria, in quanto il lavoro da remoto si è rivelato una soluzione per conciliare le limitazioni dovute all’emergenza sanitaria con la necessità di assicurare la continuità del business.

LE INIZIATIVE SULLE TECNOLOGIE DIGITALI PER IL LOCKDOWN

Il traino della normativa. A facilitare l’adozione sono stati i DPCM del 23 febbraio e dell’8 marzo che hanno introdotto una procedura semplificata per l’adozione del Lavoro Agile nelle organizzazioni pubbliche e private che derogava alcuni aspetti previsti dalla legge n°81/2017 (ad esempio la sigla degli accordi individuali) per consentire alle organizzazioni che ne avevano la possibilità di permettere ai loro collaboratori di lavorare da casa sin da subito. E così il 94% delle PA , il 97% delle grandi imprese e il 58% delle PMI hanno esteso la possibilità di lavorare da remoto ai propri dipendenti e l’impatto è stato travolgente: il numero di lavoratori che svolgono le attività da remoto per una parte significativa del loro tempo è improvvisamente passato a una cifra di circa 6,58 milioni, circa 1/3 dei lavoratori dipendenti. Il numero include i dipendenti di diverse tipologie di imprese: l’Osservatorio stima circa 1,85 milioni in ambito pubblico, 2,11 milioni nelle grandi imprese, 1,13 milioni nelle PMI e 1,5 milioni nelle microimprese. Nelle grandi imprese, in media ha lavorato da remoto il 54% dei dipendenti.

L’EVOLUZIONE DELLO SMART WORKING PER IL NEW NORMAL

I settori. Il settore e le attività hanno sicuramente influenzato il numero di soggetti coinvolti: se nelle imprese del retail e del manifatturiero le percentuali sono minori, nel finance e nell’Ict il lavoro da remoto è stato applicato in modo significativo fino ad arrivare, in alcuni casi, alla quasi totalità dei dipendenti. Precedenti iniziative di smart working hanno inciso sul numero di lavoratori da remoto: se nelle imprese che avevano progetti in atto mediamente ha lavorato da remoto il 59% dei dipendenti, nelle altre il 36%. L’emergenza è stata l’occasione per estendere il lavoro da remoto anche a figure professionali che spesso risultavano escluse da tali progetti perché si riteneva che le loro attività non fossero compatibili; ad esempio gli operatori di call center, che nel 33% delle grandi imprese hanno lavorato da remoto per la prima volta, o gli operatori di sportello, che il 21% delle organizzazioni ha fatto lavorare da remoto riconvertendo una parte delle attività e rendendo digitale il canale di comunicazione con i clienti. Il 17% delle organizzazioni ha applicato il lavoro da remoto anche a operai e manutentori specializzati digitalizzando l’accesso a macchinari anche da remoto e limitando l’accesso a laboratori e impianti al minimo indispensabile di operatori.

IL 51% DELLE GRANDI IMPRESE STA VALUTANDO DI RIPROGETTARE I PROPRI SPAZI FISICI

La Pa e la scuola: coinvolti 900mila insegnanti. Nella Pa, un’ulteriore spinta al lavoro da remoto è arrivatadal minostro Fabiana Dadone che in una circolare di inizio marzo presentava il lavoro agile come modalità ordinaria di esecuzione della prestazione lavorativa. A questo si aggiungono i provvedimenti per snellire le procedure di acquisto di dotazioni informatiche necessarie per consentire il lavoro da remoto come pc e tablet. Un impulso significativo è arrivato anche dalla progressiva introduzione della didattica a distanza che ha visto coinvolti circa 900mila insegnanti di ogni ordine e grado, che hanno dovuto rivedere in maniera significativa il proprio modo di lavorare. Nelle Pa in media ha così lavorato da remoto il 58% dei dipendenti. Analogamente alle grandi realtà private, chi aveva già iniziative pregresse di smart working è stato più facilitato ed è riuscito a far lavorare da remoto un numero più alto di persone: il 70% dei dipendenti rispetto al 58% degli altri enti.

L’adozione dello smart working massivo ha evidenziato una certa fragilità tecnologica e la necessità di investire su pc, tablet, connessioni e digital skill ancora deboli dei lavoratori. Nelle grandi imprese il 69% ha aumentato la dotazione di hardware, di sistemi per l’accesso sicuro da remoto ai dati e alle applicazioni aziendali (65%) e di strumenti per la collaborazione e comunicazione (45%). Il 38% ha dato ai lavoratori la possibilità di utilizzare i propri dispositivi personali per lavorare, in logica Bring Your Own Device. Una scelta, questa che spesso si è affiancata alla decisione di integrare la dotazione aziendale per consentire di lavorare ad un numero più ampio di persone con attività compatibili, in attesa che le dotazioni fossero disponibili. Gli strumenti più introdotti sono stati i pc portatili nel 26% delle grandi aziende, seguiti dagli strumenti per effettuare web conference e chat (16%). Nella Pa il tema dell’adeguatezza della dotazione tecnologica a disposizione delle persone per lavorare da remoto è stato maggiormente sentito. Il 42% degli enti ha introdotto iniziative di ampliamento della dotazione tecnologica in termini di hardware e il 49% di software, mentre circa 3 Pa su 4 hanno attivato politiche di bring your own device (byod). Il 49% delle Pa che ha introdotto tale approccio non ha effettuato integrazione della dotazione hardware dei dipendenti, quindi chi non aveva gli strumenti per lavorare ha dovuto organizzarsi con proprie risorse. Altrettanto significativo è il fatto che solo il 50% delle Pa che ha adottato la logica del byod ha sviluppato iniziative per l’accesso sicuro a dati e applicazioni. Questo ha aperto il fianco ad attacchi informatici rivolti a strumenti personali che sono stati frequenti nel periodo di lockdown .

Cosa dicono i lavoratori. La forzatura rispetto al dover lavorare sempre da casa, unita alla limitazione negli spostamenti, ha portato le persone a percepire alcune criticità di solito associate al telelavoro, come la difficoltà a separare i tempi dedicati al lavoro da quelli alla vita privata (29%) e a mantenere un corretto work-life balance (28%), spesso a causa di un eccesso di connessione. Molti lavoratori, infine, hanno messo in evidenza la percezione di un senso di isolamento (29%), non tanto dai colleghi del proprio team di lavoro, nei confronti dei quali si è spesso assistito a un intensificarsi delle interazioni, quanto piuttosto verso l’organizzazione nel suo insieme. Anche dal punto di vista delle organizzazioni l’applicazione emergenziale dello smart working ha comportato alcune criticità. Il 58% delle grandi imprese, in particolare, ritiene che la difficoltà da parte delle persone a mantenere un corretto equilibrio tra vita privata e professionale sia stata tra le principali criticità del periodo. Il 40% evidenzia la disparità nel carico di lavoro delle persone: ciò è dovuto al fatto che alcuni lavoratori si sono trovati a dover fronteggiare una mole di attività significativa che invece per altri si è sensibilmente ridotta. Il 33% delle grandi imprese ha evidenziato l’impreparazione da parte dei manager a gestire questa nuova modalità di lavoro e il 31% le limitate competenze digitali delle persone.

I 5 milioni di smart worker di oggi e domani. Complessivamente, superato il picco di lavoratori da remoto raggiunto a marzo 2020, l’Osservatorio stima che da settembre abbiano lavorato in parte da remoto circa 5,06 milioni di lavoratori. Nelle imprese private il numero di lavoratori è calato gradualmente fino ad assestarsi sul 43% dei lavoratori e pari a circa 1,67 milioni. Nelle Pmi e nelle microimprese si ipotizza una decrescita analoga e i lavoratori da remoto sono rispettivamente circa 890 mila e 1,18 milioni. Il trend di decrescita è invece più netto per le Pa dove i lavoratori da remoto sono pari a 1,32 milioni. Nell’organizzazione del rientro, le grandi imprese private si dividono tra quelle che hanno forzato il rientro rendendolo obbligatorio o fortemente consigliato e quelle che invece hanno lasciato libere le persone di scegliere se rientrare e con che modalità. Nel settore pubblico invece 3 enti su 4 hanno scelto un approccio più direttivo, ponendo come obbligo o come fortemente consigliato il rientro per un determinato numero di giorni. In media i lavoratori nelle grandi aziende private hanno lavorato da remoto per la metà del loro tempo lavorativo (circa 2,5 giorni a settimana), nel settore pubblico la frequenza del lavoro da remoto è in media di 1 giorno a settimana. Per predisporre il rientro in sicurezza delle persone in sede, le principali iniziative realizzate sono l’introduzione di regole e linee guida sull’utilizzo degli ambienti (91% delle grandi imprese e 78% delle PA), la definizione di un piano di rientro delle persone, come ad esempio l’introduzione di turni, per ridurre il numero di contatti (88% e 69%) e la segnaletica per orientare i flussi e incentivare comportamenti sicuri (81% e 64%). In molte organizzazioni è stata prolungata la possibilità di lavorare da remoto, lasciando autonomia alle persone sulla scelta del numero di giornate in cui lavorare in sede, attivando le procedure necessarie a garantire il distanziamento e il limite massimo di persone presenti. In alcuni casi le aziende sono intervenute sul layout fisico degli ambienti limitando le postazioni accessibili, inserendo dei separatori (52% delle grandi imprese e 50% delle Pa) o chiudendo alcune aree della sede (45% e 13% nelle Pa). Per evitare assembramenti sono stati rimodulati gli orari di ingresso e uscita in oltre un’azienda su tre.

Le prospettive future. «L’esperienza che abbiamo vissuto ha creato nuove abitudini e aspettative nei lavoratori e ha fatto maturare nelle organizzazioni nuove consapevolezze sul modo di lavorare. Tutto questo si dovrà tradurre in un diverso approccio al lavoro che caratterizzerà il “new normal”», dice il professor Corso. Passata l’emergenza, il 51% delle grandi imprese dice che agirà sugli spazi fisici, modificandone le modalità di utilizzo per venire incontro alle nuove esigenze, il 36% modificherà le caratteristiche del progetto di smart working già in essere e agirà sulla digitalizzazione dei processi. La Pa si preparerà al “new normal” introducendo progetti di smart working (48%) digitalizzando processi e attività (42%) e aumentando la dotazione tecnologica dei propri dipendenti (35%). Cosa cambierà? Sicuramente il numero delle giornate a settimana che passeranno da una a 3. Inoltre il 65% delle imprese amplierà il numero di smart worker, il 42% includerà nel progetto figure professionali finora escluse e il 17% delle imprese interverrà sull’orario di lavoro. Anche nel 72% delle Pa si prevede di aumentare le persone coinvolte nel progetto di smart working. Un quadro che oggi consente al professor Corso di stimare che al termine dell’emergenza ci sarà «un consolidamento e una leggera crescita del numero di smart worker rispetto ai numeri di settembre che nel complesso arriveranno a 5,35 milioni.

La riflessione. Il termine smart working è oggi molto utilizzato. Forse troppo utilizzato, soprattutto perché lo smart working non è esattamente e solo il lavoro da casa o da remoto. «È un accordo libero e responsabile tra azienda e lavoratore e prevede che le persone, con flessibilità e autonomia, scelgano il luogo e l’orario più adatti allo svolgimento di una determinata attività a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati – interpreta Corso -. Durante la prima fase dell’emergenza, tuttavia, non è stato possibile esercitare i presupposti di autonomia a flessibilità nella scelta del luogo di lavoro e neppure si è riusciti a trasformare la cultura organizzativa, i comportamenti e gli stili di leadership verso approcci più orientati alla responsabilizzazione sui risultati». Quella che abbiamo sperimentato, dunque, è una modalità di smart working molto particolare, con caratteristiche estreme ed “emergenziali” di cui occorre tenere attentamente conto quando si formulano valutazioni e giudizi. «È comunque innegabile come la possibilità che circa 6,6 milioni di lavoratori hanno avuto di lavorare da remoto, abbia da un lato consentito una grande resilienza, limitando i danni della pandemia e garantendo il distanziamento richiesto dalla situazione sanitaria, e dall’altro ha anche messo drammaticamente in evidenza la totale inadeguatezza e intrinseca fragilità delle nostre organizzazioni – conclude Corso -. L’emergenza Covid-19 ha quindi costituito un radicale punto di svolta, forzando un’adozione dello smart working che, proprio perché estrema, costituisce un’esperienza preziosissima da cui partire per progettare il futuro del lavoro oltre l’emergenza».

in Il Sole 24 Ore, 03 novembre 2020