La crisi del neoliberismo

STEFANO ZAMAGNI

 Qualora si fosse avvertito il bisogno di un’ulteriore prova (dopo la grande crisi finanziaria del 2008) della insostenibilità del modello liberista – quale modello di ordine economico e sociale – la pandemia da Covid-19 che ha colpito dal dicembre 2019 il mondo intero ci offre la dimostrazione (forse) decisiva.

Un chiarimento essenziale conviene dare in premessa. Non si confonda il liberalismo con il liberismo. Il primo è la tesi di filosofia politica che, a partire da John Locke (fine del XVIII secolo) in poi, afferma il primato del principio di libertà su principi altrettanto fondamentali quali la sicurezza, la giustizia sociale, la solidarietà. Il liberismo invece è una specifica teoria economica nata negli anni Sessanta del Novecento all’Università di Chicago con Milton Friedman e altri, che si richiama bensì al liberalismo, ma imprimendo ad esso una torsione fortemente riduzionista. Le prime applicazioni concrete del progetto liberista sono state quelle di Reagan in USA e della Thatcher nel Regno Unito negli ultimi anni Settanta. Il grande liberale J.S. Mill, economista e filosofo di metà Ottocento, mai avrebbe sottoscritto le ricette economiche liberiste. Del pari, il nostro Luigi Einaudi era certamente di fede liberale, ma non avrebbe certo accolto un programma liberista di politica economica. E così via.

Quali sono dunque le colonne portanti dell’edificio liberista, oggi in procinto di collassare? La prima riguarda l’assunto antropologico dell’agire economico. Si tratta del ben noto assunto dell’homo oeconomicus, di un soggetto cioè totalmente autointeressato e strumentalmente razionale. L’assunto è il precipitato dell’hobbesiano homo homini lupus. Si potrà mai parlare di solidarietà autentica quando si crede che l’altro sia un lupo famelico tutte le volte in cui interviene nell’arena del mercato?

Il secondo pilastro è la credenza nell’esistenza di una mano invisibile che, grazie all’operare del meccanismo del libero mercato, fa il “miracolo” di trasformare tanti egoismi individuali in benessere collettivo. Ma per ottenere un tale risultato bisogna lasciar fare tutto al mercato, con lo Stato che si autolimita a svolgere il ruolo del guardiano delle regole del gioco e poco altro. Di qui la c.d. economia dell’effetto di sgocciolamento, secondo cui una marea che sale solleva tutte le barche. Papa Francesco nell’Evangelii gaudium, per avere avuto il coraggio di denunciare la fallacia, sia teorica sia empirica, di tale fake truth, è stato fatto oggetto di attacchi semplicemente incivili, proprio da parte di coloro che vorrebbero proclamarsi difensori della libertà di pensiero. Il fatto è che una marea che sale (cioè il Pil che aumenta) solleva solo gli yacht! E questo spiega la scandalosa crescita delle diseguaglianze sociali nell’ultimo quarantennio. Oggi sappiamo che una delle cause remote della pandemia è l’aumento strutturale (cioè non contingente) delle disparità fra paesi e gruppi sociali entro il medesimo paese.

La terza colonna portante del liberismo è l’accettazione acritica – e quindi neppure resa oggetto di discussione – del principio del Noma (Non overlapping magisteria), per primo introdotto nel discorso economico nel 1829 da Richard Whateley, cattedratico economista all’Università di Oxford, e poi riemerso, dopo un lungo periodo di nascondimento, nel secondo dopoguerra e da allora accolto dal main- stream come un dogma scientifico. Il principio dei «magisteri che non si sovrappongono» sancisce che le tre sfere che occupano lo spazio sociale – quelle dell’etica, della politica e dell’economia – devono re- stare tra loro separate: l’etica è la sfera dei valori, la politica è la sfera dei fini, l’economia è la sfera dei mezzi. In quanto tale essa è la disciplina che deve occuparsi di trovare i mezzi più efficienti per conseguire i fini dettati dalla politica, una volta che questi siano stati validati dall’etica.

Si è così affermato il convincimento in base al quale quello economico sarebbe un discorso oggettivo, assiologicamente neutrale, che si regge sulle ferree leggi del mercato. Niente giudizi di valore, né benevolenza, né compassione. La vicenda triste delle Rsa e dei reparti di terapia intensiva degli ospedali è una conseguenza, tra le tante, di tale mentalità, ormai diffusa anche tra chi non si dichiara liberista. Infine, la quarta colonna di cui si diceva è l’accoglimento del modello dicotomico Stato-mercato: tutto deve rientrare o nel privato o nel pubblico, perché la proprietà è o privata o pubblica.

Va da sé che per il neoliberalismo lo spazio più ampio è quello occupato dal mercato rispetto a quello dello Stato. Non c’è posto, nell’orizzonte liberista, né per i beni comuni né per la proprietà comune. Si badi che è questa la radice profonda del tragico degrado ambientale: l’ambiente è un bene comune globale, ci ricorda la Laudato si’, e dunque la sua governance non può essere né privatistica né pubblicistica. Anche la salute è un bene comune, ma la si continua a trattare come un bene privato (USA) o come un bene pubblico (Europa).

Possiamo allora meravigliarci di quanto avviene sotto i nostri occhi in questo periodo storico? Quel che invece va realizzato è il modello triadico Stato-mercato-comunità; riconoscendo cioè piena cittadinanza sociale al principio di sussidiarietà (circolare, però, perché quella orizzontale e tan- to meno quella verticale non sono versioni fedeli della sussidiarietà). Come ormai tutti hanno compreso, nella gestione di questa crisi pandemica nessuno spazio è stato concesso ai corpi intermedi della società (art. 2 della Costituzione). (Si badi di non confondere la filantropia – tipico strumento liberista- con la sussidiarietà).

Per concludere e a scanso di equivoci. Dichiarare improponibile la versione dell’economia liberista di mercato, oggi in crisi irreversibile, non implica affatto abbracciare la versione dell’economia neostatalista di mercato – di cui non ho qui lo spazio per dire. Come suggerisce il pendolo di Foucault, sarebbe come passare da un estremo all’altro, dalla padella nella brace. Piuttosto, quel che occorre fare è accelerare i tempi per realizzare, nella pratica, la versione dell’economia civile di mercato, le cui radici storiche affondano nella scuola di pensiero francescana del Quattrocento-Cinquecento, la stagione del primo Umanesimo. Ebbene, l’in- vito accorato che ci viene dalla Caritas in veritate e dall’Economia di Francesco (Assisi, novembre 2020) è quello di osare di rompere gli indugi per vincere la paralizzante apatia dell’esistente.

(Testo tratto da LA FEDE E IL CONTAGIO Nel tempo della pandemia, a cura di L. Alici, G. De Simone, P. Grassi, in Quaderni di Dialoghi, 2020, pp104-106)