Chernobyl. L’esplosione del reattore atomico di 34 anni fa

Daniele Zappalà

Quella catastrofe, 34 anni fa, lacerò indelebilmente le ‘magnifiche sorti e progressive’ della tecnoscienza novecentesca. Poiché il “vulcano” esploso a Chernobyl quel 26 aprile 1986, pur riecheggiando ancora in qualche modo l’immane potenza naturale vesuviana colta poeticamente nell’Ottocento dal Leopardi, era nient’altro che il reattore numero 4 di una centrale nucleare sovietica battezzata V.I. Lenin, sul territorio dell’attuale Ucraina.

In 34 anni, tante inchieste ufficiali e giornalistiche sono state dedicate alle responsabilità umane e alla tragica dinamica che condussero alla fusione del nucleo del reattore, così come all’opacità intrattenuta dalle autorità sovietiche pur in presenza del primo incidente di categoria 7 nella storia del nucleare civile, poi drammaticamente ‘doppiato’ nel marzo 2011 dalla catastrofe giapponese di Fukushima. Migliaia le vittime, il cui numero finale però non è mai stato scritto. Diverse inchieste e rapporti, pure, sulle immani conseguenze sanitarie e ambientali, ancor oggi tanto attuali. A livello storico e geopolitico, prosegue invece il dibattito sul peso che una simile catastrofe ebbe nell’affondare il già incrinato sistema sovietico, dato lo smacco incancellabile portato ai miti tecno-scientisti accuratamente innestati per decenni nell’ideologia dell’Urss.

Ma 34 anni dopo, in piena pandemia da coronavirus, quel vulnus ancora così attuale per il popolo ucraino, a cominciare da tutti i poveri territori martiri della catastrofe, può suonare pure come una sorta di presagio. Nel senso che a Chernobyl, pur nel quadro di una tragedia dagli effetti ‘circoscritti’ essenzialmente all’Europa, l’umanità tutta si sentì ‘spiazzata’ di fronte all’imprevisto.

Infatti, le strazianti e immani carneficine delle grandi guerre mondiali, compresi gli sganci dell’atomica a Hiroshima e Nagasaki, potevano ancora essere ricondotte e interpretate, politicamente e filosoficamente, come il risultato di una volontà di potenza deviata dell’umanità. In una prospettiva storica ancor più ampia, invece, le più mortifere epidemie della storia, dalla peste che mise più volte in ginocchio la civiltà italiana, fino alla Spagnola che imperversò fra il 1918 e il 1919 su scala mondiale, potevano essere spiegate anche dalle profonde lacune nelle conoscenze scientifiche, prima del grande decollo novecentesco del sapere medico.

A Chernobyl, così come poi a Fukushima e in questi mesi di fronte al coronavirus, un’umanità ben più sicura (e orgogliosa) dei propri mezzi tecnoscientifici ha invece vissuto sulla propria pelle l’esperienza amarissima di veder rapidamente crollare tante certezze. Come un castello di carta.
In altri termini, Chernobyl fu la prima sonora e dolentissima lezione d’umiltà ricevuta dall’autoproclamato homo technologicus: ovvero, l’uomo che coi propri mezzi, lungi ormai solo dallo stupire per i propri prodigiosi successi, ha provato a rimodellare il mondo, fino a dar nascita di recente a una nuova ‘era geologica’ riconosciuta da una parte della comunità scientifica: l’Antropocene, presunto successore dell’Olocene.
Ma l’ampia portata delle riflessioni che anche in queste settimane Chernobyl può ispirare, nella scia pure del lavoro di pensatori come Jean-Pierre Dupuy e Dominique Bourg, non dovrebbe mai far dimenticare le devastazioni sul campo e le conseguenze sanitarie lasciate dal collasso del reattore numero 4. E neppure l’abnegazione dimostrata in tutti questi anni dalle Ong internazionali che cercano d’attenuare il fosco strascico oncologico e di morte nell’Ucraina divenuta indipendente, peraltro oggi sconvolta, su vasti territori, da un persistente stato di guerra.

Fra le Ong in prima linea, figura anche la fondazione italiana Soleterre Onlus, basata a Milano, attiva in Ucraina dal 2004 attraverso il proprio programma internazionale di oncologia pediatrica che giunge pure in Africa (Marocco, Costa d’Avorio, Uganda). In 15 anni, in Ucraina, l’Ong ha assistito e assicurato l’accoglienza di 28.670 bambini, formato 1.602 medici e paramedici, contribuendo così ad innalzare di quasi il 10% i tassi di sopravvivenza al cancro infantile in Ucraina: dal 55% al 64%. L’Ong collabora a Kiev con l’Istituto del cancro e con l’Istituto di neurochirurgia. Analogo impegno pure al fianco dell’Ospedale regionale a L’viv, la Leopoli già capoluogo della Galizia austriaca e poi per secoli contesa sanguinosamente fra grandi potenze, fino all’epilogo spaventoso della Seconda Guerra Mondiale, durante la quale si visse pure la dolorosissima pagina dell’Armir italiana.

Intanto, resta pure il mistero sul numero di vittime realmente imputabili al dramma. Tanti esperti continuano a sobbalzare di rabbia di fronte alle cifre ufficiali, compresa la stima dei morti prevedibili cumulati nel tempo pubblicata nel 2005 nel rapporto del ‘Forum Chernobyl’, organismo multi-agenzia dipendente dall’Onu: «Fino a 4mila persone in totale potrebbero morire a termine delle conseguenze di una radio-esposizione consecutiva all’incidente». Una stima, hanno additato i critici, ricavata con un metodo proporzionale a partire da una piccola parte della popolazione realmente raggiunta dalle radiazioni: solo 600mila persone, ovvero circa 200mila «liquidatori» (addetti allo spegnimento e alla decontaminazione), 120mila evacuati e 280mila altri residenti nelle zone più contaminate). Ma chi difende quelle conclusioni ufficiali rimanda ai profondi dilemmi di metodo, da taluni giudicati insormontabili, che implica la mortalità nel tempo di ogni caso di estesa esposizione a radiazioni.

L’ultima ondata di paura proveniente da Chernobyl risale ai giorni scorsi, dopo lo scoppio a inizio aprile di vasti incendi nelle foreste vicine all’ex centrale, il cui ultimo reattore in funzione era stato definitivamente spento solo nel 2000. La combustione di queste foreste durevolmente radioattive ha liberato colonne di fumo potenzialmente pericolose, disseminate dai venti anche in direzione dell’Europa occidentale. Ma i primi rilevamenti, anche nella stessa Ucraina, avrebbero fugato per ora i peggiori timori.

Di certo, anche attraverso le diverse evocazioni filmiche del disastro, fino alla miniserie anglo-americana Chernobyl (2019) che evoca pure il dramma degli addetti che si sacrificarono per spegnere e poi decontaminare il sito, il simbolo della catastrofe continuerà a far riflettere le generazioni.

in Avvenire, 25 aprile 2020