Giornata mondiale contro la schiavitù minorile

Stefano Vecchia e Giovanni Seclì

In Pakistan 25 anni fa, nel giorno di Pasqua, l’omicidio del piccolo tessitore cristiano. Grazie a lui il mondo ha iniziato a combattere la schiavitù da lavoro fra i bambini.

Domani ricorrerà la Giornata mondiale contro la schiavitù minorile, proprio nel giorno che ricorda l’uccisione di Iqbal Masih, esempio della lotta contro questa piaga, condotta oggi a livello internazionale. La sua appartenenza religiosa ha reso evidente a tutti come tanti fra coloro che cadono nella rete del debito in Pakistan siano di fede cristiana. Tuttavia quella di Iqbal, prima ancora di essere una vicenda di persecuzione, è una vicenda di liberazione dall’oppressione che ha acceso un riflettore potente – che da allora non si è mai spento – sul sistema feudale che fa da sfondo alla società pachistana. Una fitta rete di rapporti tra politici, latifondisti, imprenditori senza scrupoli, fondata su rapporti familiari, clanici o di casta. Una situazione che garantisce quasi sempre l’impunità a chi si macchia del reato di schiavitù – e di altri connessi con il pieno potere che gli sfruttatori hanno sulle vittime – “giustificato” dall’accoglienza del prestito e dall’impegno a restituirlo con il proprio lavoro: un vincolo per molti impossibile da sciogliere, e per questo che si deve necessariamente estendere pure ai figli. Al punto che, in alcune aree e per determinati impieghi, i minorenni sarebbero il 70 per cento dei “lavoratori– schiavi”.

Anche se fuorilegge dal 1992, l’oppressione si perpetua coinvolgendo un gran numero di individui: si calcola almeno quattro milioni soltanto nelle fornaci di mattoni, attraverso un sistema di sfruttamento di cui le autorità sono restie ad ammettere le dimensioni. Punibile, infatti, non è il rapporto debitorio, se consensuale, quanto eventuali crimini ad esso connessi.

Le tante organizzazioni che cercano di mettere fine alla schiavitù – come il Fronte per la liberazione dal lavoro forzato che ha avuto in Iqbal un portavoce e che ha affrancato finora almeno 100mila schiavi – hanno pochi strumenti per intervenire una volta che si sia instaurato un debito, se non riscattando le vittime. Su altri fronti, il loro impegno si rivolge alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica, alla preparazione professionale di quanti si sono liberati e alla richiesta alle autorità affinché predispongano servizi che incentivino la frequenza scolastica dei figli di genitori schiavi. (Stefano Vecchia)

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Caro direttore, nel giorno di Pasqua del 1995, il 16 aprile, veniva ucciso in Pakistan Iqbal Masih, di soli 12 anni. Già era diventato testimone-simbolo mondiale della lotta contro lo sfruttamento schiavistico di centinaia di milioni di bambini soltanto in Asia. La sua uccisione lo ha trasformato in martire: sia per il suo impegno sociale a favore dei bambini dall’“infanzia negata” e contro sfruttamento dei lavoratori; sia per la sua fede cristiana. Sicuramente questa sua fede – legata all’educazione familiare, professata in situazione di emarginazione socio- religiosa (la comunità cristiana è soprattutto composta da persone delle “caste inferiori”, dal lavoro più umile) – ha alimentato e sorretto la sua indignazione contro le ingiustizie e l’eroica lotta per l’emancipazione umana di bambini strumenti-schiavi della produzione; probabilmente la sua testimonianza cristiana è stato una concausa delle dinamiche che favorirono l’assassinio.

In quel giorno di Pasqua di 25 anni fa – dopo la Messa e con il Vangelo in mano, si tramanda –, Iqbal fu strappato dalla terra, per risorgere nella memoria di tanti di noi, rigenerando il messaggio universale di liberazione umana. La sua condizione di vita sfruttata – a partire dai 4 anni in una fabbrica di mattoni, per proseguire in una di tappeti, venduto dalla famiglia indigente – si era trasformata a 10 anni in denuncia e in testimonianza, smuovendo l’opinione pubblica internazionale e favorendo nel “suo” Pakistan (ma non solo) alcuni provvedimenti politici di limitazione delle pesanti condizioni di lavoro schiavistico, a danno soprattutto di bambini, secondo una prassi secolare perpetrata da proprietari di laboratori tessili di tappeti e di altri settori di lavoro ancor più duro.

Il risentimento nei suoi confronti, probabilmente, è stato accentuato dal clima di intolleranza religiosa prevalente in Pakistan (soprattutto con la creazione di un doppio sistema legale, di cui uno basato sulla sharia, dal 1991) verso la minoranza cristiana, presente in particolare nella regione del Punjab e purtroppo perdurante anche in questo XXI secolo, con il rigurgito di fondamentalismi, risposta perversa anche all’ingerenza politica e militare perpetrata dall’Occidente in diverse regioni.

Il suo martirio si inquadra all’interno di tale contesto; per questo Iqbal Masih va riproposto come testimone di giustizia, di solidarietà, di costruzione di una comunità fraterna, di attuazione del messaggio evangelico all’interno della sua nazione, dalle perduranti drammatiche criticità sociali: miseria e sfruttamento, mancanza di diritti elementari all’istruzione e alla sanità, conflitti etnici, intolleranza religiosa a danno della minoranza cristiana – ri-esplosa nella persecuzione di Asia Bibi, per fortuna sottratta alla pena di morte, grazie all’impegno internazionale – compresa la lunghissima campagna informativa di Avvenire – oltre che alla resipiscenza della giustizia del Pakistan.

Per tali motivi, in occasione dei venticinque anni del martirio di Iqbal Masih, è commovente e mobilitante che papa Francesco, in una lettera ai Movimenti popolari di tutto il mondo, abbia sollecitato un salario universale minimo per tutti coloro che si ritrovano confinati e sfruttati nelle infinite zone grigie e nere del lavoro a livello planetario. È importante riproporre, nel quadro di tale impegno, anche il forte e ricco ricordo di questo giovanissimo lavoratore assetato di bene e di equità, vivificando il suo messaggio: un’onda lunga figlia di una vita breve, ma senza tempo.

Monito e modello insieme per un cammino di giustizia sociale, da Masih testimoniato in modo coraggioso, consapevole e insieme spontaneo e “ingenuo”. Ad appena dodici anni egli ha compiuto il “miracolo” di aver trasformato, con il messaggio incarnato nella sua vita, leggi e pratiche ataviche, cause del male sociale dello sfruttamento schiavistico minorile, liberando, almeno in parte, milioni di bambini da una condizione di miseria umana e materiale. Una missione di testimonianza del Vangelo, riproposto anche da lui quale strumento di conversione e di liberazione umana. Il ricordo di Masih in questo tempo di Pasqua può rappresentare anche un percorso di dialogo tra fedi e culture in quella nazione e civiltà antica, nobile, ma anche lacerata; oltre che riconoscimento per l’eroicità della fede professata dai cristiani in quella regione. (Giovanni Seclì)

in “Avvenire” del 15 aprile 2020