Filosofia. I processi della conoscenza nella direzione della complementarità

José Tolentino Mendonça

La storia del sapere può essere letta alla luce del paradigma della sostituzione. Nel sapere si danno non solo semplici processi di evoluzione, ma anche vere e proprie rivoluzioni, come ricostruito da Thomas Kuhn nella sua celebre opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche, 1962. Determinate scoperte, lo sviluppo di nuove intuizioni, il maturarsi di un complesso di fattori concomitanti, possono provocare uno strappo epistemologico che comporta l’abbandono, o perlomeno la pretesa dell’abbandono, di un modello di sapere. In questo caso il sapere va sostituito. Così la filosofia greca è nata all’insegna del profilo sostitutivo del logos rispetto al mythos, del sapere teoretico, concettuale, rispetto alla narrazione e al simbolismo. Il pensiero “magico” degli antichi è stato sostituito da quello tecnico dei moderni. La scienza moderna è nata nel XVII secolo dalla sostituzione del primato probatorio dell’auctoritas con la prova sperimentale. La fisica relativistica ha soppiantato la fisica classica per poi, a sua volta, essere messa in questione dalla fisica quantistica.

Quello che la storia insegna, però, è che nell’ambito del sapere, per quanto riguarda non i contenuti, ma i modelli epistemici, la sostituzione, con il passare del tempo, spesso si ridefinisce come integrazione. Le pertinenze vengono redistribuite, le competenze specificate. Dall’alternativa si passa alla complementarità. Il “nuovo” si scopre insufficiente. Deve ricorrere all’antico per integrare carenze essenziali e correggere deviazioni. È un fatto che i rapporti tra i diversi modelli epistemologici restano spesso non pacifici, perché il vicinato è tanto fonte di collaborazione come di tensione, ma la coesistenza è riconosciuta come necessaria. E la logica stessa della conoscenza spinge verso l’integrazione, piuttosto che verso l’estraneità.

Questa conversione alla complementarità si evidenzia maggiormente in aree della razionalità che hanno a che fare con l’autocomprensione dell’uomo. In fin dei conti, dopo 2500 anni ancora abbiamo bisogno di ricorrere al mito platonico della caverna per capire qualcosa di noi stessi, anche se l’autore voleva espellere i poeti dalla polis. Le scienze esatte, dal canto loro, non hanno sostituito la religione: la riduzione della fede a superstizione è un modello epistemologico ormai minoritario, ampiamente falsificato dal punto di vista razionale. Le reciproche scomuniche sono roba del passato. E precisamente quest’inversione di marcia, da una pretesa di sostituzione a una collaborativa apertura multi- e trans-disciplinare, è la tendenza che a mio avviso si sta affermando crescentemente anche nel campo della teologia e degli studi delle religioni.

Il rapporto tra studi delle religioni e teologia

Come è noto, gli studi delle religioni si sono affermati a partire dalla fine del XIX secolo, sulla base di due diverse concezioni di scienza sociale, che hanno dato corso a due filoni paralleli. Una tradizione è quella fenomenologica-comparativista, i cui autori classici sono Rudolph Otto e Mircea Eliade, l’altra tradizione è quella filologico-empirica, che ha le proprie espressioni più compiute, e accademicamente potenti, nella storia e nella sociologia della religione. Nella diversità delle impostazioni, entrambe le tradizioni nascono con l’ambizione di essere saperi sostitutivi della teologia, marginalizzata a discorso epistemologicamente obsoleto, o perlomeno secondario e derivato: una specie di alchimia di Dio e della sua ricerca da parte dell’uomo, destinata a estinguersi lentamente come razionalmente inconsistente o perlomeno superflua.

La tradizione fenomenologico-comparativista privilegia lo scrutinio categoriale di quello che le diverse tradizioni religiose hanno in comune, in un approccio squisitamente comparativo, che sacrifica la singolarità contenutistica all’invarianza formale. Le religioni risultano variazioni storicamente condizionate dell’universale antropologico e della forma del sacro, e le teologie, nel loro costitutivo confessionalismo, restano circoscritte al piano dell’accidentalità storica, complemento accessorio della ricostruzione fenomenologica del sacro.

La tradizione filologico-empirica, di matrice sociologica e storica, nasce dalla necessità di allargare alla religione il paradigma “scientifico” dell’oggettività e della neutralità valoriale. Secondo la formula weberiana che riassume questo modello, la scienza, anche quella sociale, è wertfrei, “libera dal valore”; è, in altre parole, scienza alla terza persona. Lo scienziato è il narratore “eterodiegetico”, che non partecipa alla storia che racconta, non fa parte del quadro che descrive, o virtualizza la propria presenza come assenza. Il sociologo della religione che descrive il declino contemporaneo della pratica religiosa, per esempio, si astrae dalla propria contemporaneità, dalla propria scelta nel merito, per analizzare la pratica come puro fenomeno oggettivo. In altre parole, l’eventuale credenza (positiva o negativa) dello scienziato non deve interferire nella descrizione della credenza come fenomeno sociale.

Ora è evidente, ed è stato ampiamente denunciato, il paradosso intrinseco a questa pretesa di estraniazione secondo cui una buona analisi della credenza si dà solo lasciando la propria credenza fuori della porta, perché la razionalità della scienza è completamente diversa dalla razionalità della credenza e le due non possono essere né confuse né mescolate: devono restare rigorosamente separate.

La critica ermeneutica a questo tipo di riduzione scientifica ha squassato ben presto la sua pretesa. Infatti, nel campo dell’esperienza umana l’oggettivazione metodica è fondamentale strumento di ricerca, ma non può aspirare all’esclusività: è una forma di razionalità limitata che si deve integrare con l’interrogazione — non meno razionale — del dato storico e antropologico come esperienza di senso. La svolta linguistica maturata nella filosofia del Novecento ha una ricaduta formidabile nel paradigma epistemologico delle scienze dell’uomo, evidenziando irreversibilmente che il dispositivo dell’estraneazione metodica è limitato e deformante se si autocomprende come onnipotente. L’accesso cognitivo all’esperienza umana, a cominciare da quella della credenza, è possibile solo se la prospettiva della terza persona (dell’osservatore non partecipe) si flessibilizza come ruolo permutabile con quello del soggetto coinvolto (io) e co-coinvolto (tu). Che cosa sia la credenza si può sapere, si può descrivere, solo se si è capito che cosa essa sia, cioè se si sa giocare il gioco linguistico dell’essere persuasi e del dare fiducia a una pretesa di verità, assumendo reversibilmente il ruolo del soggetto che dà o rifiuta questa fiducia (io) e del soggetto che è messo in questione in merito a questa fiducia (tu).

In altre parole, come spiegano i grandi filosofi della svolta linguistica, sappiamo parlare una lingua (sappiamo verbalizzare razionalmente la nostra esperienza di noi stessi e del mondo), solo se sappiamo assumere transitivamente e reciprocizzare tutti e tre i ruoli (prima, seconda, terza persona — singolare e plurale) in cui si costruisce il processo comunicativo che genera l’interazione umana e il rapporto con il mondo come esperienza di senso.

È un fatto, tuttavia, che, almeno negli ultimi anni, il quadro di questa rivendicazione di autosufficienza, giustificabile come gesto aurorale di rottura, è alquanto mutato e il paradigma della sostituzione, della marginalizzazione della teologia a sapere parrocchiale, ha ceduto il campo a una visione di complementarità occasionalmente competitiva ma auspicabilmente collaborativa.

Per dare concretezza a questa valutazione vorrei esaminare rapidamente due costellazioni storiche e culturali che hanno favorito questa transizione dalla pretesa di sostituzione al riconoscimento di complementarità nel rapporto tra studio delle religioni e teologia.

Le società postsecolari e il multiculturalismo

La prima costellazione è quella che chiamerei la sorpresa della secolarizzazione incompiuta, se ci atteniamo alla diagnosi weberiana di secolarizzazione come processo di fuoriuscita della religione dalla sfera pubblica e di sua attestazione nella sfera della convinzione personale. Questa diagnosi ha dominato buona parte delle letture storiche e sociologiche novecentesche, promuovendo un’interpretazione della modernizzazione come “disincanto”. Il disincanto weberiano non è semplicemente (come a volte erroneamente estrapolato) una disaffezione religiosa delle masse, un declino generalizzato della credenza, ma è piuttosto il declino della potenza cognitiva della religione, emarginata crescentemente a dominio dell’irrazionale giurisdizione dei valori. In un mondo secolarizzato, secondo Weber e i suoi successori, la religione appartiene al regno delle credenze che non danno a conoscere nulla, ma semplicemente regolano simbolicamente l’intercorso interumano e intraumano, sostanziando in riti e tradizioni le identità e le affezioni. Il ruolo della religione è quello di un vettore sociale di coesione e identità, del tutto irrilevante dal punto di vista della verità (dell’uomo, della storia) e perciò inevitabilmente declinante nell’avanzare della modernità, sostituito da meccanismi specializzati, più efficaci, di interpretazione dell’esperienza umana (come l’arte, la scienza, il diritto).

Ora, come ormai generalmente ammesso, al punto da essere un luogo comune, il postulato fondamentale che sorregge questo paradigma si è rivelato erroneo: la pertinenza cognitiva della religione come razionalità interpretativa rilevante, depositaria di intuizioni antropologiche insostituibili dal punto di vista sia individuale e privato sia collettivo e pubblico, ha resistito alla sua contestazione da parte di un’interpretazione epistemologica della razionalità che si è rivelata, nel tempo, riduttiva e perciò ideologica. Quello cui assistiamo nelle società già definite come postsecolari è il declino dell’appartenenza, associato a un processo di disgregazione più generale delle tradizioni istituzionali del mondo globalizzato, a sua volta tuttavia combinato con la permanenza vitale del religioso come fondamentale chiave interpretativa dell’esperienza antropologica. E la teologia non è più sostituita dalla scienza della religione come titolare della verità sul fatto religioso, ma è riconosciuta come un testimone imprescindibile nella ricostruzione della verità del fatto religioso, interlocutore irrinunciabile nella determinazione dell’autorappresentazione della credenza.

Approdiamo alla seconda costellazione di ridefinizione epistemologica: la transizione verso un paradigma multiculturale. L’universalità della razionalità scientifica passa a essere denunciata come una razionalità storicamente, geograficamente e socialmente condizionata e particolare, costruita nell’esclusione e nella rimozione della diversità (delle minoranze interne alle società occidentali e delle maggioranze a esse esterne: le periferie dell’impero).

La svolta postcolonialista degli studi delle religioni, fortemente promossa dalle periferie geografiche (le molte Afriche, Asie, Americhe che contestualizzano la tradizione occidentale come particolare) e sociali (donne, comunità etniche, religiose, tradizionalmente minoritarie e discriminate) produce (in forma tumultuosa, a volte frettolosa e ingenuamente riduttiva, ma salutare) una spinta al decentramento e a una diversificazione di linguaggi e prospettive che contesta alla radice la neutralità della scienza (eventualmente smascherabile come dispositivo di dominazione, come sostenuto da Michel Foucault). Il modello analitico accettato passa a essere piuttosto quello dell’interlocuzione critica tra razionalità diverse, concorrenti nella ricostruzione della verità del fatto religioso come elaborazione polifonica, processo “in fieri” di esplorazione e interpretazione, i cui risultati non possono essere vincolati dall’inizio da opzioni metodologiche unilaterali. Il pluralismo delle razionalità è la matrice fondamentale di questa mutazione.

Verso un modello pluralistico

Quello che si delinea nel panorama attuale è dunque un modello estremamente pluralistico e aperto di studi delle religioni, in cui il paradigma della sostituzione si converte in paradigma di collaborazione e complementarità, e la teologia è accolta come interlocutore pienamente legittimo dal punto di vista epistemologico, portatore di una razionalità peculiare, che è imprescindibile per la ricostruzione della verità dell’esperienza religiosa.

In questo quadro nuovo, ancora altamente instabile e in costante evoluzione, la teologia esce dall’isolamento cui è stata relegata per essere riconosciuta come testimone e attore necessario all’autocomprensione della credenza, a partire dalla sua origine (le fonti), nella sua evoluzione nel corso della storia (la Tradizione) e nell’elaborazione teologale della sua recezione attuale (Sitz im Leben). Senza un dialogo serrato con la razionalità autointerpretativa della teologia, le scienze della religione si privano non solo di contenuti essenziali del proprio oggetto di studio, ma di una razionalità a esso peculiare, imprescindibile per la sua comprensione. L’antica formula anselmiana, Credo ut intelligam, trova una rinnovata conferma in questo dialogo necessario tra studi delle religioni e teologia. Solo comprendendo che cos’è credere e come la credenza si autorappresenta, gli studi delle religioni possono realizzare il proprio scopo scientifico, perché, come abbiamo cercato di ricostruire nel nostro percorso di riflessione, non si può accertare la verità sul fatto religioso senza prendere sul serio la verità del fatto religioso.

Dal canto suo, la teologia deve oltrepassare il riduzionismo epistemologico cui l’hanno compressa secoli di concettualismo scolastico, aprendosi con generosità e senza paura alla molteplicità dei luoghi teologici e delle grammatiche della fede che fioriscono in seno all’esperienza religiosa. Solo nella libertà dell’abbandono fiducioso allo Spirito, all’inesauribile ricchezza della sua immaginazione e della sua rivelazione, il nostro tempo ci troverà capaci di corrispondere all’invito dell’apostolo: siate «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pietro 3, 15).

in L’Osservatore Romano 11 marzo 2020