Quanto è cambiata la vita delle donne

Massimiliano Valerii

Al risveglio, stamattina, una donna si guarda allo specchio e scopre quanto è cambiata dall’inizio del terzo millennio.

Vive più a lungo. Supera gli 85 anni in media, più degli 81 degli uomini: dall’8 marzo del 2000 ha guadagnato quasi 3 anni in più. Ha uno stile di vita più salutare. Le fumatrici sono scese al 15%, le sportive sono salite al 22 per cento. È più istruita. Le laureate furono 89 mila nel 2000, sono state 186 mila l’ultimo anno, il 57% di tutti gli addottorati. Si sposa di meno. I matrimoni sono crollati del 31% rispetto al 2000. E quelle che fanno questa scelta (196 mila nozze celebrate nell’ultimo anno) lo fanno più in là con l’età. Il numero delle spose con almeno quarant’anni è triplicato nel giro di vent’anni: erano meno del 6% del totale, sono diventate quasi il 25 per cento. Sempre meno con il rito religioso, però. Gli sposalizi in chiesa sono la metà, prima erano tre quarti. Mentre sono aumentati i matrimoni misti, con un coniuge straniero: dal 7% al 17 per cento. Ci si lascia più frequentemente, le relazioni sono diventate fluide e reversibili. Separazioni e divorzi sono schizzati in alto: +71% nei due decenni. Ma non sono di certo i legami affettivi a estinguersi nelle statistiche. Si sta insieme se i sentimenti sono autentici, non per necessità come una volta. Cenerentola non ha più bisogno del Principe azzurro. E se in assoluto nascono meno figli (-20% in vent’anni), sono triplicati quelli fuori dal matrimonio: meno del 9% dei nati nel 2000, più del 32% oggi. Ora si diventa madre per la prima volta mediamente a 31,1 anni: non è poco. Fanno più figli le donne sopra i quarant’anni di quelle sotto i venti. Bilancio: più indipendenza e un maggiore riconoscimento sociale. Ma a quale prezzo? Si sono spostati in avanti alcuni passaggi chiave dell’esistenza.

Si può amare e allo stesso tempo lavorare, fare carriera, raggiungere traguardi ambiziosi, ricoprire incarichi di prestigio e ottenere la giusta gratificazione, magari con un lauto stipendio? Sì, certo. Ma per le donne vale un po’ meno. Perché se amano un figlio piccolo da accudire o un genitore anziano di cui prendersi cura, dovranno sacrificare parte dei loro sogni di realizzazione professionale. Il tasso di attività femminile è fermo al 56,4%, molto più basso del 75% degli uomini.È aumentato di oltre 7 punti negli ultimi vent’anni, i progressi si vedono. Ma ci separa un abisso dall’81,4% della Svezia, dal 74,8% delle tedesche, dal 68,9% delle spagnole, dal 68,1% delle francesi. Siamo semplicemente all’ultimo posto in Europa, preceduti anche da Romania e Grecia. Nel Sud, poi, le donne che lavorano sono solo il 32,2%, meno di quanto il Paese intero registrava nel 1977. In più, il 32,8% delle italiane occupate ha un impiego part time (tra i maschi il dato scende all’8,7%), quindi retribuzioni ridotte.

I redditi complessivi di una donna sono mediamente inferiori del 25% di quelli di un uomo a causa delle carriere a intermittenza. Si deve ancora parlare, allora, di parità di genere nell’Italia del 2020? «Ai sensi di legge» le offerte di lavoro sono rivolte a candidati «ambosessi» (ma l’Accademia della Crusca non aveva dichiarato guerra al burocratese?). Le “quote rosa” per decreto hanno ingentilito con presenze femminili i consigli di amministrazione delle società quotate e delle aziende a partecipazione pubblica.

Anche le liste elettorali sono unisex, un nome maschile e uno femminile alternati. Abbiamo corretto i sostantivi in “sindaca” e “ministra”, declinati puntualmente. Che altro pretendono? Problema risolto: astenersi piagnone, prego. Ma il trucco è ben collaudato, si usano il famoso bastone e la carota. Perché invece il Paese è veramente indietro nelle politiche di sostegno alla genitorialità e nelle misure di conciliazione lavoro-famiglia: non gli spiccioli di estemporanei bonus bebè e voucher per le baby sitter, ma sgravi fiscali strutturali, asili nido pubblici, congedi parentali adeguati e utilizzati ugualmente da madri e padri, intercambiabili nei ruoli casalinghi. Poi però si scopre che quella donna che si barcamena come una provata funambola per tenere tutto insieme, affetti, casa e lavoro, può rimanere imprigionata in una singolare forma di sindrome di Stoccolma, sequestrata da stereotipi e pregiudizi duri a morire.

Nell’Italia di oggi sono ancora un terzo le donne convinte che agli uomini non si addica occuparsi delle faccende domestiche. E un quarto è dell’opinione che sono loro stesse, le donne, a istigare la violenza sessuale se si vestono in maniera provocante (lo pensano in ugual misura maschi e femmine). Ecco quello che non vorresti più vedere riflesso nello specchio il prossimo 8 marzo.

in “la Repubblica” del 8 marzo 2020

** L’autore è direttore generale del Censis