Femminicidio. In Italia ogni tre giorni viene uccisa una donna

Mariapia Bonanate

A fine del gennaio scorso, cinque donne sono state uccise in due giorni, sei in una settimana. Questa escalation ha fatto pronunciare al Procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, nella sua relazione all’anno giudiziario, parole mai prima dette: «Siamo di fronte a un’emergenza nazionale». Era ora che, da parte di un rappresentante delle istituzioni, fosse riconosciuta quella che ormai è una strage. Sempre il Procuratore Salvi ha denunciato «l’aumento del dato percentuale, veramente impressionante, delle donne uccise rispetto agli omicidi degli uomini».

Secondo l’ultimo rapporto dell’Eures, su Femminicidio e violenza di genere, oltre l’85% di questi reati sono commessi tra le mura domestiche da partner, mariti e fidanzati. Nel 28% dei casi erano stati preceduti da violenze fisiche, stalking e minacce, rimaste impunite e inutilmente denunciate dalle vittime: «Il femminicidio rappresenta l’ultimo anello di un crescendo di vessazioni e violenze che la presenza di un’efficace rete di supporto potrebbe invece riuscire ad arginare».

Dietro a quelle cifre, ci sono i nomi, i volti, un dolore devastante, di milioni di donne che in tutto il mondo scompaiono nel nulla, dopo essere state ammazzate, mentre la fila delle vittime si allunga e si continuava non fare niente. C’è il volto di Rosalia Garofalo, 54 anni, una delle ultime, ammazzata dal marito a Mazara del Vallo, dopo essere stata picchiata selvaggiamente per tre giorni, prima per anni, nonostante avesse denunciato più volte il marito per maltrattamenti. Ci sono i volti di Rosalia Mifsud, 48 anni e di sua figlia Monica Diliberto, 27, uccise per gelosia dall’ex compagno della madre, a Caltanissetta. C’è il volto di Fatima Zeeshan, 28 anni, all’ottavo mese di gravidanza, uccisa in Alto Adige a botte, dal marito, morto anche il suo bambino. Quattro storie di quel terribile gennaio scorso, che abbiamo voluto ricordare perché non si dimentichi che le vittime di quella che è ormai una “guerra”, non sono un numero di una statistica. Hanno anche loro un nome, un volto, una storia di tanta sofferenza.

Il femminicidio è il capitolo terribile di un dramma planetario che ha visto in Italia, negli ultimi tre anni, 3 milioni e 150 mila donne subire violenze sessuali sul posto di lavoro. Negli ultimi due anni, in media, 88 donne al giorno patiscono abusi e violenze, una ogni 15 minuti. «Nell’85% dei casi, il carnefice non ha bisogno di bussare alla porta per un motivo molto semplice: ha le chiavi di casa. Ci sono le sue impronte sullo zerbino, l’ombra delle sue labbra sul bicchiere di cucina». L’ha “gridato” durante l’ultimo Festival di Sanremo, nel suo struggente “Monologo”, la giornalista Rula Jebreal, la cui madre si è suicidata, dandosi fuoco perché non sopportava più il proprio corpo, stuprato per anni dal patrigno, costretta dalla famiglia al silenzio per evitare il disonore. Rula Jebreal è cresciuta in un orfanotrofio con centinaia di bambine che la sera si raccontavano le storie delle loro madri: torturate, uccise, violentate.

La sua coraggiosa testimonianza ha avuto anche il merito di ricordare la dolorosa realtà, spesso trascurata, dei figli delle vittime. Quando non sono ammazzati fisicamente, il che purtroppo accade di frequente, sono per sempre feriti nell’anima e nella psiche, devastati nella loro vita personale, dalla tragedia che li ha coinvolti.

Il femminicidio non può più essere considerato “un affare di famiglia”, è “un affare che riguarda tutti”, trasversale alle classi sociali, alle età, alle generazioni, ai luoghi dove si manifesta. Lo alimenta ogni giorno quella cultura maschilista che continua a permeare la nostra società e considera la donna proprietà privata dell’uomo, “una cosa” da usare e abusare per rispondere ai propri desideri, scaricare le proprie impotenze e frustrazioni.

Quando la donna minaccia l’abbandono o rivendica la sua autonomia, non accetta un dominio assoluto su di lei, «l’uomo distrugge l’oggetto che sfugge alle sue mani, come fa un bambino con un giocattolo rotto», ha detto Eugenio Borgna, il grande, illuminato, “psichiatra dell’interiorità”, che ha aggiunto: «In una società, attanagliata dall’incertezza della propria identità, che ha perso la capacità di cogliere la ricchezza della differenza, l’uomo non tollera i confini sempre più ampi di espressione conquistati dalla donna, si sente minacciato in quella che è la sua supremazia. Il diluvio di immagini che ritraggono la donna come oggetto, finisce con disumanizzare l’altro e la disumanizzazione del prossimo diffonde una scia di impulsi che arrivano anche alla tentazione omicida».

Il clima di violenza, esaltato da un linguaggio sempre più aggressivo e irrispettoso delle persone, che impregna la nostra quotidianità, l’indifferenza, diventata una pandemia, che chiude porte e finestre sui drammi della porta accanto, l’esaltazione totalizzante dell’io che brucia ogni possibilità di relazione umana, sono complici di questa cultura maschilista che si identifica con il potere del più forte. Smentito da quel femminicidio che rivela tutta la fragilità di chi, quando non può più esercitarlo quel potere, piuttosto uccide la vittima. «In ogni violenza noi facciamo rinascere Caino. Noi tutti. La nostra coscienza si è addormentata, abbiamo reso più sottili le nostre ragioni per giustificarci. Come se fosse una cosa normale, continuiamo a seminare distruzione, violenze e morte». Sono parole di papa Francesco.

in “Vita Pastorale” del marzo 2020