L’impotenza dei genitori davanti alle malattie inafferrabili dei propri figli

Elena Loewenthal

«Lo abbiamo visto spegnersi lentamente, senza poter fare nulla per salvarlo», raccontano Francesca e Fabio, i genitori di Lorenzo Seminatore, morto a poco più di vent’anni di anoressia dopo sei dentro una battaglia sempre più disarmata, sempre più smarrita nel vuoto intorno a loro. Giorno dopo giorno, un passo alla volta, tutti e tre camminavano verso il precipizio. Che strazio, deve essere stato, e quanta giusta rabbia si annida dietro quel dolore, adesso che il loro bambino non c’è più: ucciso da una malattia inguaribile, ma soprattutto inafferrabile. E, spiegano, una malattia sottovalutata, che la società non è ancora capace di ascoltare. Per questo la solitudine dei genitori di Lorenzo è moltiplicata per mille: solitudine di fronte alla solitudine del figlio, e un senso di abbandono di fronte all’impotenza – e fors’anche una certa misura di indifferenza – da parte di una realtà incapace di offrire la cura adatta a quel male. Cura non soltanto in termini di guarigione, ma prima ancora di umana sollecitudine: «La dura realtà è che in Italia non esistono strutture pubbliche in grado di accogliere e curare i ragazzi che soffrono di queste patologie».

Il racconto del loro calvario è straziante: anni di discesa lenta eppure inarrestabile, anni di speranze brevi, di disperazione intercalata da momenti in cui Lorenzo sembrava avere voglia di vivere ma quella voglia sfumava presto in una lucidità mostruosa – «non mangio, così muoio prima», diceva. Anni di ricoveri e dimissioni, di passioni che parevano medicine, come la musica, ma subito si spegnevano. E tutto è precipitato con la maggiore età di quel bambino, quando l’impotenza di Francesca e Fabio è diventata totale: lui su un fronte e loro sull’altro, con le mani e il cuore legati. Una tragedia del genere ispira commozione e tanta pena.

Ma c’è qualcosa d’altro che chi è genitore non può non provare, in fondo all’animo. Perché se la loro resta un’esperienza estrema, è altrettanto vero che per chi mette al mondo un figlio viene, inesorabilmente, il momento della libertà. Quella del figlio di imboccare la propria strada, spiccare le ali o cercarsi una prigione tutta per sé. Quella del genitore di spezzare il cordone ombelicale dell’amore, quello che hanno tanto i padri quanto le madri, se genitori lo sono per davvero e non solo anagraficamente. E’ la consapevolezza ovvia ma inevitabilmente drammatica che i figli sono altro da noi. Che fare il mestiere di genitore significa, prima o poi, arrendersi alla loro libertà proprio per tenere in vita quel legame unico e indescrivibile. Uno strappo fatto in egual misura di impotenza e responsabilità, necessario perché loro diventino adulti. Un trauma fatto tanto di paura quanto di scoperta, per noi e per loro: quasi tutti noi lasciamo andare serenamente i nostri figli nella strada della vita, perché è giusto e necessario che sia così. Per altri, come nel caso di Francesca e Fabio e del loro Lorenzo, è uno strappo che la vita toglie, invece di darla: di fronte a tragedie come queste, non resta che il muto abbraccio di un destino che tutti ci accomuna, in quanto genitori e figli.

in “La Stampa” del 18 febbraio 2020