Africa e Colonialismo. 60° anniversario dell’indipendenza di 17 Paesi africani

GIULIO ALBANESE

Quest’anno ricorre il sessantesimo anniversario dell’indipendenza di 17 paesi africani, tra i quali figurano il Burkina Faso, la Costa d’Avorio, il Mali, il Niger, la Repubblica Centrafricana e tanti altri. Pertanto, è doveroso riflettere sul significato che ebbe il penoso colonialismo da cui questi popoli si affrancarono faticosamente e i cui effetti sociali vennero giudicati dal ghanese Kwame Nkrumah, figura di spicco del panafricanesimo, «più insidiosi di quelli politici ed economici. Questo perché si radicano profondamente nelle menti del popolo e perciò ci vuole più tempo per sradicarli».

In effetti, il colonialismo di cui stiamo parlando, quello che interessò in modo pervasivo il continente africano a partire dalle spedizioni esplorative portoghesi del xv secolo, è un’epoca rispetto alla quale l’Europa è tuttora in affanno dal punto di vista della narrazione. Questo si evince anzitutto dalla memoria collettiva, ancora oggi fortemente influenzata dal pregiudizio, che spesso tende a considerare il colonialismo come un’epoca portatrice di civiltà ai paesi che ne furono vittime. Si tratta di una sorta di auto-giustificazione che sottostima fortemente la realtà dei fatti e che cioè il colonialismo fu di per sé stesso una relazione, fra invasore e invaso, fra dominante e dominato, fra colonizzatore e colonizzato. «Per la verità — come ricorda pertinentemente lo storico Nicola Labanca — non tutti gli europei sono stati favorevoli al colonialismo. Ci sono stati contrari da più parti e con diverse ragioni: c’è stato un anticolonialismo “progressista” (illuminista, socialista-internazionalista, bolscevico, democratico) così come un anticolonialismo “conservatore” (chi ricorda il “cartierismo” francese?) e persino reazionario».

D’altronde, dal punto di vista della ricerca storiografica, sono oggi ben noti gli interessi geopolitici, egemonici, economici e strategici che, in misura crescente, a partire dall’epoca della grandi scoperte geografiche fino ai primi decenni del ‘900, portarono le potenze coloniali del tempo, quasi sempre in conflitto tra loro, alla conquista di gran parte del resto del mondo e in particolare dell’Africa. La Conferenza di Berlino (1884-1885), com’è noto rappresentò il culmine di una spartizione che esigeva una sua legittimazione. Un processo di conquista e radicamento, antesignano della moderna globalizzazione, comunque, non avrebbe tuttavia potuto prodursi senza che nella elaborazione ideologica di gran parte delle élite intellettuali del tempo e nella coscienza di milioni di europei l’avventura coloniale trovasse una qualche forma di legittimazione, o quanto meno una qualche giustificazione morale.

Ecco che allora le cause della atipicità africana furono da ricercarsi per certa propaganda nella genetica o nelle peculiarità pre-razionali delle culture autoctone, attribuendo il “ritardo” africano all’essenza naturale delle popolazioni afro e della loro weltanschauung (“visione del mondo”) particolarmente refrattarie allo sviluppo. E qui sovviene il riferimento, quasi istintivamente, al saggio del filosofo ed epistemologo Valentin-Yves Mudimbe dal significativo titolo L’invenzione dell’Africa, tradotto in italiano solo nel 2007. Focalizzando l’attenzione sul rapporto fra Occidente e Africa, Mudimbe evidenziava lo scollamento tra la realtà complessa dell’Africa, continente sconfinato, e il processo di costruzione della sua immagine in Occidente, al punto da parlare, appunto, di Africa «inventata». Un’invenzione che, paradossalmente, si è andata costruendo in modo sempre più articolato a mano e mano che la colonizzazione del continente andava intensificandosi e progredendo.

Si può allora trovare una chiave di lettura che cerchi di affermare con obbiettività le responsabilità del passato, stigmatizzando gli stereotipi e razziali e soprattutto il cosiddetto neo-colonialismo del Terzo millennio che ha già forgiato un arsenale di idee, di convenzioni e di preclusioni che trovano ahinoi un infelice riscontro nei confronti, ad esempio, della mobilità umana? È dunque possibile, per così dire, “decolonizzare” le menti attraverso percorsi di conoscenza che possano restituire dignità a tanta umanità dolente delle periferie geografiche ed esistenziali del continente africano?

In effetti, non sono soltanto in gioco le culture ancestrali, cariche di saperi millenari, dei paesi africani che, peraltro, ne sono i principali interessati. Investe anche la storia, la cultura e l’identità stessa dei paesi occidentali che sull’essere “pro” o “anti” colonialismo hanno costruito retoriche variegate che alimentano il dibattito politico e influenzano le politiche pubbliche.

È evidente che la storia, col suo carico di contraddizioni, fino al presente — dalla schiavitù alla colonizzazione, dal neocolonialismo alla globalizzazione — esige un ascolto attento delle “voci africane”, soprattutto di quelle delle nuove generazioni attualmente in Africa o presenti nella capillare diaspora europea. In poche parole, il dialogo e la contaminazione afro-europea devono essere incrementate; anche perché «l’Europa — come osserva l’intellettuale congolese Jean-Léonard Touadi — non è più l’unico interlocutore dell’Africa e il solco potrebbe crescere ancora mano a mano che cresce nelle opinioni pubbliche continentali la consapevolezza del rifiuto dell’Africa e degli africani in atto nel corpo politico e sociale delle società europee».

Occorre, pertanto, incrementare uno spazio “euro-africano” arginando quella che potrebbe essere definita una perniciosa “deriva dei continenti” attraverso la capacità di immettere nel milieu culturale e sociale europeo gli ingredienti di un racconto africano nuovo, fresco, scaturito dall’ascolto e dall’incontro con i luoghi e le persone che nelle Afriche e dalle Afriche irrompono nel Vecchio continente attraverso l’immigrazione e la diaspora. Sulle coste del Mediterraneo — al centro in questi giorni del forum ecclesiale di Bari — Mare nostrum ma anche “loro”, che ha legato storicamente i destini dell’Africa e dell’Europa, è necessario creare degli spazi d’incontro, di elaborazione comune di una convivialità possibile.

È stato il sogno di Léopold Sédar Senghor, grande statista senegalese il quale desiderava ardentemente che il Mediterraneo diventasse «Le rendez-vous du donner et du recevoir», il luogo dell’appuntamento del “dare e del ricevere” dove tutti i popoli arabi, berberi, negro-africani e greco-romani, potessero condividere qualche cosa d’importante assieme. Azzardo dell’utopia che è doveroso coltivare cristianamente.

in L’Osservatore Romano, 18 febbraio 2020