E’ possibile una scuola diversa? Più equa, efficiente, efficace, di qualità?

GIORGIO CHIOSSO, intervistato da Marco Tedesco

Migliorare le scuole è sempre più una necessità, una priorità del sistema italiano. Su questo punto studiosi e politici convergono, ma poi ci si divide (o ci si blocca) sul passo successivo: come procedere? dove intervenire? su quali leve insistere? Le strategie a tavolino non sempre aiutano e molto più efficaci si rivelano le esperienze concrete. Così, per rispondere agli interrogativi che questa sfida solleva, la Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo – che ha tra i suoi principali obiettivi migliorare la qualità dell’istruzione e l’autonomia delle istituzioni scolastiche – ha condotto tra il 2013 e il 2018 una meticolosa ricerca – Scuolinsieme – coinvolgendo un campione di istituti comprensivi di Piemonte e Liguria, i cui risultati sono poi confluiti, assieme a una serie di contributi sul tema di studiosi di diversa formazione, nel libro “È possibile una scuola diversa? Una ricerca sperimentale per migliorare la qualità scolastica” (Il Mulino, 2019).

Abbiamo chiesto a Giorgio Chiosso, professore emerito di storia della pedagogia nell’Università di Torino, che ha curato la pubblicazione assieme a Daniele Checchi, docente di discipline economiche alla Statale di Milano e componente del Consiglio direttivo dell’Anvur, di commentare i risultati e le “lezioni” che se ne possono trarre.

L’autonomia scolastica ha da poco compiuto 20 anni. Non avrebbe forse bisogno di un tagliando? In che direzione bisognerebbe muoversi per rimettere al centro la riflessione sui processi gestionali che possono dare nuovo valore all’autonomia scolastica?

Di autonomia scolastica si è molto discusso, ma alla prova dei fatti e a una serena e complessiva valutazione essa è rimasta in gran parte sulla carta. Le responsabilità sono molteplici e sparse tra i vari soggetti scolastici. Non darei tutte le colpe alla politica.

Perché?

Dirigenti e collegi docenti, ad esempio, sono stati e sono, non di rado, più propensi al rispetto delle consuetudini secolari della scuola che realmente impegnati – utilizzando gli spazi normativi già a disposizione – a porsi sulla strada dell’innovazione o anche solo della semplice razionalizzazione dell’esistente. Negli ultimi tempi a fronte della debole capacità di iniziativa delle scuole si sono poi registrati fenomeni di neo-centralismo da non sottovalutare, sia a livello ministeriale sia, dietro la spinta di alcune forze politiche, di tipo regionalistico. Ma quello che più colpisce a una lettura per così dire storica di questo ventennio è il manifestarsi di una autonomia a più velocità.

In che senso?

In un celebre saggio di qualche anno fa Robert Slavin, autorevole studioso del miglioramento scolastico, descrisse le scuole statunitensi inquadrandole in tre tipologie: scuole di semi, capaci cioè di innovazione in proprio e dunque in grado di disseminare buone pratiche; scuole di mattoni, con un impianto alquanto tradizionale, solide e affidabili, disponibili al cambiamento se graduale e prudente; infine, scuole di sabbia, vale a dire scuole fragili, senza identità, incapaci da sole di riscattare la loro mediocrità.

Che cosa suggerisce questa tripartizione?

Credo che queste tre tipologie riflettano anche la realtà della scuola dell’autonomia italiana: scuole che ne hanno fatto buon frutto; scuole che l’hanno perseguita con diligenza ma senza particolare slancio; scuole che, per varie ragioni – dislocazione in realtà difficili, popolazione studentesca socialmente debole, ampio turnover di docenti e dirigenti eccetera -, sortiscono esiti mediocri e da sole non sono in grado di uscire dalle loro difficoltà. Mentre nei primi due casi l’autonomia ha prodotto esiti abbastanza o sufficientemente positivi, nel terzo caso ha purtroppo concorso a peggiorare la situazione esistente.

La qualità dell’istruzione va migliorata: su questo punto concordano tutti. Le disparità tra le scuole, come sottolinea anche il libro, resta tuttavia ampia. Come si possono accorciare le distanze? È solo una questione di risorse o di normative?

In tema di qualità scolastica non esistono scorciatoie. Il cambiamento migliorativo non è legato all’applicazione di procedure prefissate, ma si basa su processi molecolari dai tempi lunghi, non si accontenta di accelerazioni temporanee, va monitorato, perché non basta dichiararsi favorevoli al miglioramento, ma bisogna perseguirlo con coerenza.

In concreto?

Da noi il problema più serio sul piano della qualità di sistema è rappresentato dalla quota di “scuole di sabbia” che fanno da zavorra, e cioè quelle che da sole non sono in grado di produrre il miglioramento né sul versante organizzativo né sotto il profilo degli apprendimenti. Abbiamo solo un’idea di massima su quante potrebbero essere, possiamo ipotizzare a maglie larghe dove potrebbero essere dislocate, soprattutto spesso associamo alla nozione di scuola in difficoltà l’idea semplicistica di istituti popolati da docenti fannulloni o incapaci.

La realtà purtroppo è molto più complicata, non crede?

Non si innalza la qualità del sistema d’istruzione se non si provvede a sostenere le situazioni di difficoltà, sia intervenendo con appropriate forme di accompagnamento degli istituti in sofferenza che lo richiedono, sia stilando una mappa che fornisca elementi certi per agire dove occorre – ma non di rado le scuole nascondono a se stesse il loro grado di sofferenza.

Sta parlando di scuole di serie A e scuole di serie B?

So bene che questa seconda ipotesi sconta la diffidenza degli ambienti sindacali che temono di creare scuole di serie A e scuole di serie B. Ma bisogna avere il coraggio, e si tratta di un cambiamento culturale di non facile attuazione, di rinunciare all’idea di una presunta omogeneità tra le scuole per riconoscere senza intenti punitivi chi ha bisogno di aiuto e mettere conseguentemente in campo risorse specifiche per contrastare le performance insoddisfacenti.

La professione dell’insegnante in Italia ha perso nel tempo prestigio. Ma la qualità dei docenti resta un fattore chiave per migliorare le scuole. Come agire in tal senso?

Se diamo uno sguardo là dove le esperienze di miglioramento sono ormai consolidate – ad esempio in Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada, Australia… – e costituiscono una prassi ordinaria, possiamo notare come esse si svolgono lungo una triplice e incrociata direzione: migliorando l’organizzazione scolastica, favorendo la collaborazione tra scuole e specialmente potenziando la professionalità docente. In quest’ultimo caso si tratta di lavorare in modo specifico sulla capacità riflessiva dei docenti, sulla loro disponibilità a lavorare in gruppo dentro il singolo istituto e anche tra scuole diverse, sull’abitudine ad auto-valutarsi e ad accettare senza pregiudizi le valutazioni di sistema. Cospicui investimenti, che non significano aumenti salariali a pioggia, sulla qualità del personale aiuterebbe senza dubbio a innalzare la qualità del sistema d’istruzione.

E per quanto riguarda il prestigio sociale assai decaduto?

Va detto che nessuna professione può godere di credito sociale “sulla parola”, ma si basa – come avviene per tutte le professioni liberali – sulla credibilità dei docenti, che passa anche dall’aggiornamento e dalla formazione.

Ci può indicare in breve l’impianto della ricerca “Scuolinsieme”?

Il progetto Scuolinsieme della Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo di Torino è stato realizzato tra il 2013 e il 2018 con il coinvolgimento di 26 istituti comprensivi nella fascia scuola secondaria di primo grado – 16 dislocati in Piemonte e 10 in Liguria – per un totale di 114 classi, 2.465 allievi e 751 docenti, più altri 24 istituti che hanno funzionato come “gruppo di controllo” di pari dimensioni. Il miglioramento è inteso, in questo progetto, come potenziamento del capitale professionale delle scuole, come ripensamento dell’organizzazione interna, come capacità di mobilitare risorse latenti e come aumento nei livelli di apprendimento conseguiti dagli studenti.

Qual è l’aspetto più innovativo?

L’aspetto più innovativo della sperimentazione consiste nella sua durata: raramente accade che nel nostro Paese gli obiettivi sperimentali siano seguiti per un lungo periodo. A ciascuna scuola sono stati assegnati, oltre a 8mila euro, due tutor esperti – con spese a carico della Fondazione – che hanno infatti accompagnato la dirigenza e i docenti delle classi di ex scuola media per un triennio, sostenendoli nella realizzazione del progetto di miglioramento da essi stessi predisposto – il Piano di miglioramento è stato elaborato prima dell’avvio dei Rav e adeguato in corso d’opera secondo le indicazioni ministeriali. L’intervento dei tutor, poi, si è svolto su due livelli: consulenza sul piano organizzativo e gestionale e affiancamento del potenziamento delle attività di apprendimento in italiano e matematica.

Perché la Fondazione per la Scuola ha promosso e finanziato questa ricerca?

Il progetto rientra nelle scelte strategiche della Fondazione, basate sulla convinzione che le scuole vadano sostenute, secondo lo spirito dell’autonomia, per vie interne, rafforzando la capacità delle scuole di rispondere all’altezza delle aspettative delle famiglie e degli altri soggetti sociali (“per le scuole e con le scuole”). La Fondazione non ha una “pedagogia propria” e non persegue proprie tesi politico-scolastiche: promuove e sostiene i progetti – in passato, per esempio, sono stati predisposti progetti sulle reti scolastiche, la rendicontazione sociale, la valorizzazione dei docenti – che possono dar vita a forme più avanzate e compiute di autonomia.

Quali sono i risultati raggiunti dalla ricerca rispetto al cambiamento scolastico e agli apprendimenti degli alunni?

In via molto generale, al termine del progetto la valutazione messa in campo ha documentato in positivo una buona disponibilità delle scuole a lasciarsi coinvolgere, talora anche con un certo entusiasmo, nella sperimentazione con una buona accoglienza dei tutor sia da parte della dirigenza, sia da parte dei docenti, non percepiti come soggetti estranei e invadenti, ma come preziosi collaboratori alla pari. Si sono così create forme di collaborazione nella prospettiva della “comunità di pratica” spesso del tutto inedite nella storia delle scuole coinvolte. In quest’ottica numerosi dirigenti hanno preferito non gestire in proprio il miglioramento, ma affidarlo a docenti appositamente delegati.

È emersa qualche criticità?

Aspetti più critici sono individuabili nelle difficoltà a elaborare il piano di potenziamento degli apprendimenti degli allievi, sia per una scarsa consuetudine con la dimensione progettuale, sia anche per qualche impreparazione sul piano della gestione metodologico-didattica. In generale si è poi constatato che l’eccessiva mobilità del personale – in alcuni casi fino al 40% dei docenti ha cambiato scuola nel corso del triennio – costituisce una grave precondizione negativa. Il miglioramento necessita di stabilità e continuità. In positivo, invece, abbiamo registrato la continuità delle attività anche al termine del triennio sperimentale. A un anno di distanza si è verificato che nei due terzi degli istituti, cioè 19 su 26, le prassi migliorative sono proseguite anche senza i tutor e il finanziamento erogato dalla Fondazione.

Che impatto si è avuto sugli apprendimenti degli allievi?

Il dato risulta più articolato e critico. Gli apprendimenti degli allievi non hanno fatto registrare significativi cambiamenti, in pratica un piccolissimo incremento in matematica. È possibile che un triennio sia uno spazio temporale insufficiente perché il miglioramento del capitale professionale e del funzionamento scolastico ricada sulle pratiche didattiche e sugli esiti rilevabili – secondo alcuni studi sarebbero infatti necessari almeno cinque anni perché ciò accada –, ma è anche possibile che le attività messe in campo non siano state abbastanza efficaci. Positive sono invece risultate le iniziative predisposte per migliorare la motivazione degli allievi allo studio.

Quale eventuale spendibilità “politica” è possibile ipotizzare per la ricerca in relazione alle azioni previste dal Sistema nazionale di valutazione?

È sempre molto delicato entrare con pareri e consigli, non richiesti, nelle dinamiche politiche che sono oggetto di confronti e compromessi di vario genere e, dunque, non seguono sempre logiche lineari. La Fondazione mette a disposizione tutto il materiale raccolto durante la sperimentazione nella speranza che a chi compete prendere iniziative possa valorizzarlo. Se debbo essere sincero, ho l’impressione che il miglioramento e tutte le questioni legate alla valutazione non siano in questo momento in cima alle priorità delle politiche scolastiche. È un vero peccato, perché l’avvio del Sistema nazionale di valutazione, una delle norme più interessanti approvate negli ultimi anni, ha potenzialmente aperto strade di grande interesse per il futuro della scuola.

in Il Sussidiario, 14 febbraio 2020