La schiavitù in Africa oggi

Anna Pozzi

È una storia che si ripete in tutta la sua crudeltà quella della schiavitù in Africa. Ma le porte del non ritorno oggi non si affacciano più sull’Oceano Atlantico e le carovane non si dirigono verso quello Indiano. Sono nuove, più sofisticate — ma non troppo — le moderne forme di schiavitù in Africa. Anche se poi, alla fine, il risultato non cambia. Milioni di donne, uomini e bambini continuano a essere privati della loro libertà e dignità: braccia per il lavoro forzato o la servitù domestica; merci per il mercato del sesso o i matrimoni precoci; carne da macello nelle tante aree di crisi o per il traffico di organi. 120746268-b4c3b2eb-7e5c-46c9-9416-bbafbc0e74e6.jpgL’Africa è il continente con uno dei tassi più alti di impunità e con la presenza più rilevante di vittime: oltre la metà sono minorenni (30% femmine, 25% maschi). La regione subsahariana, in particolare, è terra di origine, transito e destinazione di moltissime vittime di tratta e di varie forme di schiavitù. Le principali — secondo il più recente rapporto dell’Agenzia Onu contro la droga e il crimine (Unodc, gennaio 2019) — sono il lavoro forzato (63%) e lo sfruttamento sessuale (31%).

Il crocevia Nigeria

In Africa occidentale il fenomeno ha assunto proporzioni rilevanti, specialmente per la presenza del «gigante» Nigeria. Che «importa» giovani schiavi dai Paesi limitrofi, bambini e bambine usati nei campi o nelle case; ed «esporta» soprattutto schiave del sesso per i mercati regionali e per quelli europei. Il fenomeno, che si è consolidato nell’arco di circa quarant’anni, si è intrecciato in questi ultimi con i flussi migratori lungo le rotte del Sahara e del Mediterraneo centrale.

Dal 2014 al 2016 sono sbarcate in Italia circa 18 mila donne nigeriane, tra cui moltissime minorenni. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), almeno l’80% sono vittime di tratta. Quasi tutte sono transitate dall’inferno della Libia, dove hanno subito torture e stupri. Moltissime arrivano incinte o con bambini piccolissimi. Ma finiscono comunque sulle strade italiane (o di altri Paesi europei), costrette a prostituirsi. Patricia è una di loro. Aveva ripagato il «debito», ma i suoi sfruttatori non l’hanno liberata. E l’hanno gettata via in un sacco della spazzatura lungo la strada su cui era stata costretta a prostituirsi, la Vigevanese, in Lombardia. Prima hanno ammazzato la sorella in Nigeria. Poi hanno provato a uccidere pure lei. Ora che il passaggio in Libia è diventato più pericoloso, i trafficanti stanno dirottando la loro «merce» su altre rotte: quelle verso la Spagna, ma soprattutto quelle regionali. L’Oim ha rintracciato almeno 20 mila giovani nigeriane costrette a prostituirsi nelle zone delle miniere d’oro del Mali. In condizioni disumane.

Le miniere del Congo

È quello che succede anche nelle zone orientali della Repubblica Democratica del Congo, dove ragazzini e ragazzine sono costretti a lavorare in condizioni para-schiavistiche: i maschi per scavare i minerali di questa terra ricchissima e maledetta; le ragazze come schiave sessuali. Le regioni nell’est della Repubblica Democratica del Congo sono tra le più ricche al mondo di minerali preziosi come l’oro, e strategici come la cassiterite, la wolframite e il coltan, indispensabili per l’industria bellica e quella tecnologica. Ma chi ci abita non ne trae alcun beneficio. Anzi, per saccheggiare questa terra, da oltre vent’anni si continua a sfruttare il lavoro-schiavo della gente del posto e si arruolano a forza ragazzi e ragazze, spesso poco più che bambini, per le milizie locali. Come Sifa e Love, che hanno meno di vent’anni e hanno già combattuto; lui è stato arruolato a forza dai ribelli mayi mayi, lei è stata rapita, violentata e costretta a combattere per l’esercito congolese. Ha partorito un bimbo che ha chiamato Bisimwa, il «figlio prediletto». Ma la sua famiglia non lo accetta. «Il figlio di un serpente è un piccolo serpente», dicono.

Il conflitto, di cui pochissimo si parla, avrebbe provocato circa sei milioni di morti, quattro milioni e mezzo di sfollati e decine di migliaia di donne violentate, come denuncia instancabilmente anche il Premio Nobel per la pace Denis Mukwege, che ogni giorno mette a rischio la sua vita nell’ospedale Panzi di Bukavu. Nel capoluogo della regione del Sud Kivu, all’ingresso di un angusto magazzino dove si pesa la polvere grigia del coltan, si legge su una lavagnetta che «non si accettano minerali che vengono dalle zone controllate dalle bande armate». Ma tutti sanno che si tratta di una farsa. Frutto della schiavitù e della frode, questi minerali finiscono con certificati di origine falsi nel mercato dell’economia globalizzata.

Il sistema della Mauritania

Appartiene a forme arcaiche di sfruttamento il sistema schiavistico tuttora in Mauritania. Non è bastata l’abolizione ufficiale della schiavitù nel 1981 — nemmeno quarant’anni fa – né sono bastate le leggi del 2003 e del 2015 per estirpare questa piaga che ha origini ancestrali. E che fa sì che ancora oggi gli haratin — i neri discendenti degli schiavi, 40% della popolazione — ma anche le minoranze wolof, soninke e fulani siano non soltanto gravemente discriminati, ma spesso soggetti a condizioni di servitù da parte dei mauri, gli arabo-berberi (30% dei 4 milioni di abitanti). Le donne, in particolare, rappresentano la «merce» più preziosa. Usate e abusate dai loro padroni, non hanno diritti sui loro figli che sono di proprietà del padre, anche se la donna si sposa con un uomo libero, caso ancora molto raro. I matrimoni forzati precoci sono un’altra pratica diffusa. Lo ha vissuto sulla propria pelle quella che è diventata una paladina della lotta contro la schiavitù in Mauritania, Fatimata MBaye. Sposata a 13 con un uomo molto più anziano, ha vissuto per un decennio in balia del marito. Poi ha trovato il coraggio di divorziare e di riprendere gli studi per diventare la prima donna avvocato del Paese: «Ho scelto di studiare diritto per essere al servizio di chi i diritti non li ha». Di etnia peul, disprezzata e schiavizzata dalle popolazioni maure, nel 1986 è stata tra le firmatarie del «Manifesto del nero-mauritano oppresso». Ha contribuito alla fondazione di Sos-Esclaves ed è diventata presidente dell’Associazione mauritana dei diritti dell’uomo. Il suo esempio oggi è seguito da molti uomini e donne del Paese — come Biram Dah Abeid, il «Mandela mauritano» che lottano perché vangano riconosciuti a tutti i diritti fondamentali. E per costruire un mondo dove non ci siano più schiavi.

in “la Lettura” del 11 agosto 2019