Educazione. La relazione Genitori-Figli, oggi

RAFFAELLA IAFRATE

Come premessa a questo contributo, vorrei portare l’attenzione sulla scelta di affrontare il tema della relazione genitori-figli inserendo la specificazione temporale rappresentata dall’avverbio “oggi”. I cambiamenti socioculturali che hanno investito la famiglia, le modificazioni che l’idea di genitorialità e filiazione hanno subito nel tempo incidono infatti profondamente sulle scelte che oggi gli adulti si trovano a compiere nei con- fronti delle nuove generazioni ad esse affidate nella crescita. E nessuna scelta educativa oggi può essere data per scontata; nessuna relazione può essere ritenuta simile a come era concepita in passato: nemmeno quella tra padri, madri e figli.

La sfida cha siamo chiamati ad affrontare è dunque quella di proporre una riflessione sui cambiamenti ai quali negli ultimi anngenitori_figli_educazione.jpgi è stata sottoposta la genitorialità, ma al tempo stesso quella di rintracciare gli elementi fondanti e – per così dire – immutabili che stanno alla base di questa e che sostanziano la relazione genitori-figli. Solo il riconoscimento di tali elementi fondativi consentirà di orientarsi nella molteplicità delle dinamiche relazionali e dei modelli educativi (o diseducativi?) presenti oggi sulla scena della nostra realtà culturale.

1. LO SCENARIO SOCIO-CULTURALE

Qual è dunque l’attuale scenario socioculturale entro cui osservare la relazione genitori-figli?

a) Il puerocentrismo narcisistico

L’esperienza genitoriale si presenta attualmente connotata da alcune caratteristiche evidenti dal punto di vista socio-strutturale: osserviamo un progressivo ed inarrestabile calo delle nascite, un innalzamento dell’età delle primipare con un rinvio alla maternità sempre più vicino alla soglia dei 35 anni ed una conseguente diffusione del modello di famiglia a figlio unico. Tali tendenze hanno radici e spiegazione nel fondamentale cambiamento di significato che il figlio assume oggi per la coppia. I dati demografici sopraccitati potrebbero infatti essere interpretati come segnali di un minor valore attribuito ai figli rispetto al passato. Di fatto la ricerca e l’esperienza clinica mostrano al contrario che al figlio venga tutt’oggi attribuito grande valore: in particolare il legame genitore-figlio viene indicato come il rapporto più stretto e durevole della vita (a fronte di un indebolimento della coppia coniugale). Più che “figlio di famiglia” ed espressione del progetto della coppia, il figlio è considerato oggi colui che spesso “istituisce” la coppia. In un periodo storico in cui il legame matrimoniale tende ad essere fragile, il vin- colo di filiazione sembra restare l’unico su cui investire in modo certo e continuativo. Sembra, in altre parole, che sia il figlio a dare senso e stabilità alla coppia a fronte della forte instabilità della stessa.

Peraltro questa centralità del figlio porta con sé anche segnali di rischio: la nascita di un bambino è sempre più accolta come l’entrata in scena di un piccolo “idolo” da adorare, assecondare, servire in tutti i modi. Si parla, al proposito, di “puerocentrismo narcisistico”, indicando con tale espressione l’intensa idealizzazione che i genitori sviluppano nei confronti dei figli e le elevatissime aspettative di conferma del proprio valore personale che attribuiscono ad essi, tanto da rendere poco tollerabile e riconoscibile l’irriducibile scarto che l’unicità della realtà personale del figlio porta con sé. I genitori hanno bisogno che il figlio sia conforme non solo all’immagine del “figlio desiderato”, ma che esso confermi la loro stessa identità genitoriale: il bambino è al centro, ma è vissuto spesso come prolungamento di sé, come conferma della propria genitorialità e non come persona unica, irripetibile e irriducibilmente “altra”.

Tutto ciò può costituire un problema per i figli poiché essi sentono di dover rispondere ad alte aspettative e ad un’impegnativa immagine di sé attraverso la quale essi incarnano inconsapevolmente il bisogno realizzativo dei genitori da cui dunque sarà più difficile staccarsi e che avrà conseguenze anche a livello dello stile educativo praticato.

Da qui, del resto, deriva la crescente legittimazione del “diritto alla genitorialità”, inteso non più come possibilità o disponibilità dell’adulto ad accogliere un figlio, ma come opzione soggetta unicamente alla libera scelta del- l’adulto, al punto che l’impossibilità di procreare non è tollerata e si è disposti ad utilizzare ogni mezzo (dall’esasperata medicalizzazione dell’intervento procreativo fino ad arrivare anche alle forme aberranti dell’illegalità sia nel campo della fecondazione assistita, sia in quello delle adozioni) per rea- lizzare il desiderio di un figlio della cui presenza, ad un certo punto della propria vita di adulti, si rivendica il diritto.

b) Il mancato riconoscimento della differenza e la difficoltà di distacco

Ciò che viene fortemente messo in discussione in questo clima culturale è l’asimmetria genitore-figlio. Occorre sottolineare che la relazione genitoriale va ricondotta ad una concezione di famiglia come incontro di differenze. Solo l’incontro con l’altro (diverso da sé) aiuta a riconoscersi, a distinguersi e quindi a crescere. In particolare, il rapporto genitore-figlio è per definizione asimmetrico e “gerarchico” e non paritetico e “democratico”; pertanto esso implica una chiara assunzione della responsabilità educativa dell’adulto nei confronti delle giovani generazioni, posizione che rifugge dai rischi dell’indifferenziazione e dell’egualitarismo a tutti i costi. Il concetto di “responsabilità” è inscritto nella relazione genitori-figli: sono le generazioni adulte che precedono che devono farsi carico di quelle giovani. Tuttavia i rischi di “parentificazione” e “adultizzazione”, all’insegna di una vera e propria inversione dei ruoli, sono sempre più frequenti nella nostra cultura di adulti fragili e disorientati, spesso portati ad appoggiarsi più che ad appoggiare i figli nel loro cammino.

Anche al fondo di questa posizione si pone il non riconoscimento dell’alterità dell’altro e della sua differenza, ossia l’incapacità di riconoscere il limi- te che si esprime nell’incontro con l’altro quando si riconosce che “io sono ciò che non sei tu” e “tu sei ciò che non sono io”.

Il massiccio investimento affettivo e cognitivo sul figlio porta inoltre come conseguenza un rallentamento e una difficoltà nel processo di distacco dal genitore, che pare essere la caratteristica oggi saliente dell’adolescenza, sempre più prolungata. Pertanto, un’indiretta conseguenza del puerocentrismo narcisistico e della mancanza di asimmetria intergenerazionale che caratterizza la nostra realtà sociale può essere individuata nel fenomeno della cosiddetta “famiglia lunga”: i figli giovani-adulti “non vanno mai via” di casa e il processo di svincolamento e di emancipazione delle nuove gene- razioni dalla dipendenza genitoriale sembra essere sempre più rallentato, con tutte le conseguenze psicologiche e sociali che tale rallentamento porta inevitabilmente con sé.

c) Se-ducere invece che ex-ducere

Un’altra tendenza culturale di oggi, che investe profondamente la relazione genitori-figli è rintracciabile nella concezione stessa di educazione che è spesso stata interpretata più come in-ducere (soprattutto in passato) e come seducere (soprattutto oggi) che come ex-ducere. In passato molto spesso venivano sottovalutate le potenzialità e soprattutto i desideri delle gene- razioni in crescita che venivano educate in modo autoritario e poco disponibile al dialogo e all’ascolto dei bisogni. Si tendeva all’in-ducere più che all’ex-ducere.

La situazione del genitore odierno è ancora diversa. Daniel Marcelli afferma che oggi il genitore non è tanto teso al compito di educare (ex-duce- re) quanto piuttosto portato a sedurre (se-ducere), a compiacere il figlio, a saturare e prevenire ogni suo bisogno.

Anche in questo caso, l’ex-ducere è disatteso.

Resta peraltro il fatto che anche nell’ex-ducere si nasconde una trappola, se si assegna troppa attenzione all’”ex” e troppo poca al – ducere. Se all’“ex-” non segue un adeguato “-ducere” i ragazzi si trovano in balia dei loro desideri e delle loro potenzialità, fatte emergere e sollecitate maieuticamente, ma poi non contenute e non orientate verso uno scopo. Oltre a consentire l’emergere dei bisogni e delle potenzialità, occorre infatti saper offrire strumenti per comprenderle e realizzarle. Ciò non significa tradire la fiducia in ciò che “sta dentro” ai giovani in crescita, quanto piuttosto credere che a tale fiducia segua l’indicazione di un percorso da seguire ed un sostegno offerto per seguirlo. Accanto all’ex-ducere è richiesto dunque un cum-ducere, un condurre verso una meta, che presuppone prima di tutto che tale meta sia ben individuata dall’adulto e poi una capacità di stare vicino, di accompagnare di non mollare la direzione verso l’obiettivo. Accompagnare con discrezione, speranza e fiducia le nuove generazioni, indicando una meta, ma disponibili a lasciarci sorprendere dalle loro potenzialità, che possono anche andare oltre rispetto ai nostri confini. Se c’è un problema concreto dei nostri giorni sta proprio in questa incapacità di condurre: da una parte potremmo rintracciare le cause di questa difficoltà nel fatto che per condurre occorre essere orientati ed oggi anche il mondo adulto è fortemente disorientato; d’altra parte occorre ricordare che per condurre bisogna accettare il rischio di dare fiducia a chi non necessariamente la ricambierà: pochi adulti oggi hanno la solidità e la struttura psichica in grado di accettare questa condizione di rischio.

d) Matrifocalità/disorientamento paterno

Un’altra tendenza culturale del nostro tempo la potremmo identificare con l’espressione “matri-focalità”, ossia una sostanziale centratura della relazione sul codice affettivo-materno, espresso in atteggiamenti ad ogni costo protettivi ed accondiscendenti e dimentichi della dimensione etica ed emancipativa proprie di ogni relazione di cura. La figura del genitore-amico, l’incertezza dei genitori – ma anche degli educatori in genere – quando si tratta di stabilire un confine tra bene e male e di prendere decisioni sul dare limiti e regole, l’imporsi di un contesto sociale progressivamente denormativizzato e connotato da una mancanza di confini netti tra le generazioni possono essere interpretati come “sintomi” di tale matrifocalità alla quale si abbina un progressivo “impallidimento” della funzione paterna.

I padri di oggi tuttavia non sono “pallidi” in quanto assenti. Anzi, come risulta da un recente studio, essi sono oggi molto presenti sulla scena familiare, soprattutto nella prima fase di vita del bambino. Sono però anche disorientati e molto preoccupati del contesto sociale, percepito come minaccioso per i loro figli. La loro vicinanza ai figli esprime questo forte desiderio di protezione, mentre manca quasi del tutto la dimensione di verticalità che storicamente ha espresso la figura paterna e che dovrebbe aprire al mondo, dare la spinta ai figli, ampliarne lo sguardo.

In altre parole, sono padri capaci di affetto, ma in difficoltà nel testimoniare l’aspetto normativo dei legami. Essi sono in grado di sostenere i figli nei loro progetti, ma a disagio nel trasmettere fiducia e speranza nel futuro, assorbendo il clima di sfiducia generalizzata tipico del nostro contesto socio- economico.

e) La sfida dei nuovi media

Una sfida particolarmente attuale è infine rappresentata dal diffondersi delle nuove tecnologie e in particolare dal mondo dei social network, che ha radicalmente trasformato le relazioni fra le persone, senza risparmiare la relazione genitori-figli. Tale relazione è sempre più mediata da smartphone o dai social, che si mescolano o nei casi più estremi arrivano addirittura a sostituire, la relazione faccia a faccia, impoverendo così il legame che viene privato di quella forma di comunicazione non verbale emotiva, che si può esprimere solo “in presenza”.

Va detto peraltro che l’avvento di questi nuovi strumenti di comunicazione porta potenzialmente con sé molti vantaggi, rendendo più accessibile il mondo sociale a chiunque, velocizzando e ampliando le possibilità di con- tatto tra le persone, aumentando le opportunità di scambio di informazioni; tuttavia aumentano esponenzialmente anche i fattori di rischio che accompagnano tale cambiamento, soprattutto per le giovani generazioni, i cosiddetti “nativi” dell’era informatica, che “proprio grazie alla dimestichezza inna- ta e alla naturalezza con cui trattano questi mezzi, si trovano spesso paradossalmente a “subirli” passivamente più che a “gestirli” consapevolmente. Gli adulti devo- no così fare i conti con la presenza, “talvolta davvero ingombrante, di questi sti- moli che dal mondo esterno si insinuano senza limiti nell’intimità delle relazioni quotidiane e dei rapporti familiari, partendo da una condizione di svantaggio (seppure solo apparente) rispetto alla posizione dei più giovani, in quanto meno in grado di padroneggiare con abilità e disinvoltura le nuove tecniche di comunicazione”.

Occorre pertanto comprendere che ci troviamo di fronte ad una vera e propria “nuova realtà delle relazioni familiari”, ormai inestricabilmente mescolate di relazioni corporee, fisicamente tangibili in precise dimensioni di spazi e di tempi condivisi, e di connessioni e relazioni digitali e riconoscere potenzialità e rischi di questo nuovo scenario”. La relazione genitori-figli e le scelte educative delle famiglie di oggi non possono dunque non fare i conti con tale realtà, che impone una comprensione approfondita dei nuovi mezzi di comunicazione delle loro potenzialità e limiti e richiede un impegno congiunto di genitori e figli che sappia comporre equilibratamente autonomia e controllo, libertà e norme.

2. LA CURA RESPONSABILE

La genitorialità si inscrive dunque in questo scenario socio-culturale, variegato, sfidante, a volte allarmante. Ma in questo panorama mutato e mutevole, possiamo rintracciare qualcosa di fondativo, una sorta di invariante che consenta di identificare il “core” della relazione genitore-figlio, ciò che al di là del tempo e dello spazio, delle tendenze culturali e della liquidità dei ruoli si può identificare come il compito fondamentale di chi genera nei confronti di chi è generato?

Forse per rispondere a questa domanda, più che partire dalla prospetti- va del genitore e dei suoi compiti, è opportuno partire dai bisogni del figlio. Di cosa cioè un figlio ha bisogno per nascere, crescere, diventare una perso- na a tutti gli effetti? Che cosa un figlio chiede e si aspetta da un genitore per diventare grande e la mancanza di cosa gli impedisce di crescere e non gli consente di realizzare fino in fondo la sua identità? Per usare un’espressione che sinteticamente risponde a questi interrogativi, potremmo dire che la genitorialità si esplica nel garantire al figlio una cura responsabile, ossia una relazione che coniughi sia aspetti di protezione e affetto, tipici della funzione materna (il matris-munus), sia aspetti normativi ed emancipativi riferibili alla funzione paterna (il patris-munus). Dunque, lungo il percorso di crescita dei figli, la compresenza di un “codice affettivo materno” e di un “codice etico paterno” è fondamentale per garantire un’equilibrata evoluzione del- l’identità personale: pertanto madre e padre giocano ruoli e funzioni diver- se e complementari nella crescita dei figli, pur modificandosi nel tempo a seconda dell’età dei figli.

All’adulto-genitore spettano dunque compiti che hanno a che fare con la natura etico-affettiva dei legami. La cura genitoriale si esprime a due livelli: garantendo affetto, fiducia, contenimento, accettazione, ma anche fornendo una direzione alla crescita, il che implica necessariamente il sapere e vole- re dare regole, il senso di ciò che è bene e ciò che è male, ponendo di fronte al limite, che aiuta a riconoscere la realtà esterna con cui si devono fare i conti. La regola permette la sperimentazione anche del rifiuto e della frustrazione ed è importante per la crescita e lo sviluppo dell’identità. È fondamentale che i genitori sappiano garantire al figlio entrambi gli aspetti della cura (affetto e norma), in quanto la mancanza dell’uno o dell’altro porta con sé notevoli rischi. Estremizzando: lo sbilanciamento sul polo affettivo conduce all’iperprotettività o al laisez faire: chi asseconda tutto o lascia fare sempre e comunque, in realtà non tiene all’altro ma lo lascia fondamentalmente solo. Dove invece c’è uno sbilanciamento sul polo della norma e dell’imposizione dei limiti, ci troviamo di fronte ai sadismi educativi di un tempo e agli episodi di coercizione e maltrattamento che ancora oggi dominano le nostre cronache. In questo caso al bambino viene negato qualsiasi riconoscimento dei suoi bisogni infantili e viene esposto alle più svariate forme di violenza, anche silenziosa.

Un altro rischio frequente nei genitori è inoltre quello di non tollerare la fatica del cambiamento. La cura responsabile si declina secondo sfaccettature diverse nelle varie fasi del ciclo di vita in risposta ai mutati bisogni dei figli e alle loro nuove competenze e responsabilità. Occorre pertanto essere consapevoli che non si diventa genitori “una volta per tutte”, ma che il compito del genitore è quello di trasformare la relazione nel tempo: da un atteggiamento di continua copertura, necessario nelle prime fasi di vita del bam- bino, ad una protezione flessibile in adolescenza, che coniuga le opposte esigenze di autonomia e dipendenza dei giovani in crescita, a una intimità a distanza con cui viene mantenuto il legame con il figlio ormai divenuto adulto.

A fronte delle sfide culturali sopraccitate (puerocentrismo narcisistico, mancanza di distanza tra generazioni, tendenza alla sé-duzione, matrifocalità, disorientamento e nuovi rischi comunicativi), rintracciare nella cura responsabile il senso della relazione genitori-figli, significa anche individuare una strategia per far fronte a tali sfide. Le dimensioni affettive ed etiche intrinsecamente presenti nei concetti di cura e responsabilità, di protezione ed emancipazione, di fiducia e controllo, rispettano infatti le istanze fonda- mentali di ogni essere umano che chiede di essere accolto, protetto ed accettato e al tempo stesso normato e aiutato a cogliere il suo limite per entrare in contatto con gli altri e col mondo.

Occorre ricordare che “non si esiste se non come figli” e ogni figlio è un “figlio dato al mondo”. Ecco perché come tale va riconosciuto nella sua alterità e accompagnato con fiducia a realizzare la sua potenzialità generativa attraverso la quale potrà veramente portare avanti e forse cambiare quel mondo che i genitori gli hanno consentito di incontrare:

“Essere dato al mondo” esprime non solo la natura dell’umano, relazionale e vincolata (non si “viene” al mondo ma “si è messi” da qualcuno che ci genera e che ci rende capaci di generatività), ma anche la sua antica e originaria vocazione: “l’essere per gli altri”, in qualsiasi condizione si nasca, in qualsiasi contesto si cresca, in qualsiasi tempo si dipani la propria storia.
Educare è dunque generare la persona, guidandola verso la realizzazione di “ciò che è”, e non stancarsi di sperare che l’altro avrà sempre e comunque la possibilità di arrivare alla meta: è nato per questo”.

in Rivista Lasalliana, n.2, 2019