La Bibbia di Bob Dylan

Gianfranco Ravasi

«Per noi fascisti le frontiere sono sacre. Non si discutono: si difendono». Così proclamava con l’enfasi che gli era incorporata Benito Mussolini nel discorso del 16 marzo 1938 alla Camera dei deputati. Parole che, declinate in forme diverse, sono sulle labbra dei nazionalisti e dei sovranisti di ogni tempo, compreso l’attuale. Ben differente è la concezione dell’autentica cultura che, senza ignorare le identità, riconosce che il vero sapiente è methórios, cioè colui che sta «sul confine» dove si allargano i diversi territori, pronto sempre a valicarli per scoprire nuovi orizzonti: il vocabolo greco è del filosofo ebreo alessandrino del I sec. d.C. Filone. Un suo contemporaneo, l’apostolo cristiano Paolo di Tarso, non esitava a dichiarare che «non c’è giudeo né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio né femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Galati 3,28), e scrivendo ai cristiani di Colossi allargava lo spettro delle frontiere introducendo «i barbari e gli sciti» (Colossesi 3,11).

Ora, l’editrice milanese Áncora da tempo ha inaugurato una collana intitolata proprio «Maestri di frontiera», rimandando a una particolare tipologia di persone: non credenti, forse agnostiche o indifferenti o provocatrici, non esitano però ad affacciarsi sulla regione della trascendenza e della fede, scrutandola come un abisso infernale o un Eden paradisiaco o semplicemente come una terra ignota, diversa rispetto a quella ove sono impiantati i loro piedi. Spesso, poi, accade che costoro, a differenza degli immobili e roboanti sciovinisti, sono persone dinamiche, convinte che le frontiere non sono ad est e ad ovest, a nord o a sud, ma dove un uomo incontra e si scontra con l’altro. È quello che suggeriva uno degli scritti più originali del primo cristianesimo, la cosiddetta Lettera a Diogneto, la quale, paragonando la presenza onnicomprensiva dell’anima nel corpo umano, affermava che «i cristiani abitano ciascuno la loro patria ma come forestieri… Ogni terra straniera è patria per loro, mentre ogni patria è terra straniera».

Ebbene, se scorriamo l’elenco dei volumi della collana a cui accennavamo, ci imbattiamo in una pattuglia di scrittori veramente methórioi, da Pirandello a Pasolini, da Pavese a Buzzati, da Quasimodo a Cristina Campo, da Saint-Exupéry ad Antonia Pozzi, da Flannery O’Connor a Beckett. Ma ci incontriamo anche con un variegato arcobaleno di voci di cantautori, da De André a Gaber, da Baglioni a De Gregori, da Branduardi e Battiato fino a Vasco Rossi, e non manca persino una puntata nel mondo delle «strisce» col delizioso e geniale Snoopy, il cane inventato dalla matita di Charles Schulz, l’autore dei Peanuts con Linus, Charlie Brown e Lucy. Ora la collana introduce un vero e proprio monumento cartaceo eretto in onore del Nobel 2016 Robert Allen Zimmerman, alias Bob Dylan.

Un ricercatore, Renato Giovannoli, consacra infatti a questo personaggio qualcosa come 1132 pagine distribuite in 3 tomi (il solo apparato degli indici occupa ben 110 pagine), e non per una biografia generale, bensì solo per tratteggiare la presenza della Bibbia nell’opera e nella vita di Dylan. È, però, vero che questo monumentale saggio riesce a ricomporre anche un ritratto completo del «menestrello», facendo emergere in filigrana la sua vicenda interiore e il suo complesso e variegato rapporto con la religione. D’altronde anche gli interessi di Giovannoli, testimoniati dalla sua bibliografia, lo rivelano come un uomo di frontiera che passa dallo studio della fantascienza a quello del poliziesco fino alla radiografia biblicofilosofica di un personaggio così sfuggente com’è Lewis Carroll con la sua Alice, immersa nel paese delle meraviglie oltre le frontiere del reale.

Chi si accinge a vivere l’avventura proposta da questo studioso deve sapere che s’imbatterà in pagine che sono un costante palinsesto o, se si vuole, un intarsio per cui avrà la possibilità di leggere quasi tutti i testi di Dylan e di penetrare negli angoli più segreti della sua mente, anima e cuore, anche perché la trilogia scandisce altrettante fasi biografiche. Si parte nel 1961 quando il cantante ebreo del Minnesota è ventenne ed entra in scena come un «profeta minaccioso», nutrito di protesta; ma ben presto egli s’affaccia sull’orizzonte mistico-escatologico-apocalittico, che lo alonava fin dalla sua nascita, per poi attraversare una foresta di «parabole enigmatiche» che sfociano in una vera e propria innologia orante, in un’eucologia sacrale (ad esempio, «Ringrazierò sempre il Signore» o «Padre della notte, Padre del giorno, Padre che porti via le tenebre»).

Ormai accanto a lui si leva anche una «mystical wife» che non gli risparmia però la solitudine della «notte oscura». Tuttavia, l’alba è in agguato e, proprio secondo la legge dell’oscillazione delle frontiere, ecco la sua conversione al cristianesimo che lo conduce nel 1979 al battesimo all’interno di una comunità evangelica. Si inaugura, così, l’arco dei «Salmi, inni e spiritual songs» (citazione paolina) che Giovannoli vaglia con un’impressionante acribia esegetica. Ma, per quella mobilità che era sua insegna, nel 1981 si notano i segni di una crisi e di un’evoluzione. In filigrana permane il grande codice biblico che per lui è come il vocabolario a cui attingere per cristallizzare nelle parole e nella musica l’incandescenza della sua ricerca che non esita a contaminarsi anche con altre espressioni artistiche, come l’iconografia cristiana (ad esempio, Mantegna o Bosch o Signorelli o Blake). Siamo nel 1988 e Dylan sembra precipitato fuori dal groove (come dice il titolo di un suo album), cioè dal «solco» della vita che è anche, in inglese, il tracciato del vinile. Ma questa caduta apocalittica non è per una morte spirituale. È, invece, la nuova frontiera che lo conduce all’ultima fase esaminata da Giovannoli che va fino al 2012 e che è definita come «un nuovo inizio e la maturità».

Qui le iridescenze sono molteplici e il critico deve lavorare con estrema acribia per individuare sia i rimandi biblici – che talora sono solo ammiccamenti e allusioni – sia il cammino della rinascita di Dylan che ha nell’album On Mercy (1989) il suo vessillo. La cronologia e la produzione comprendono un arco molto ampio ove elementi religiosi s’intrecciano ad arabeschi esoterici, trasparenze cristiane come Christmas in the Heart (con l’Adeste fideles) si accosta a una impudica Charlotte the Harlot, che echeggia la Grande Prostituta dell’Apocalisse, posta però in contrasto con una Mary che, secondo Giovannoli, sarebbe la madre di Gesù.

Fermiamoci qui in questa evocazione «impressionistica» di un lavoro «impressionante» attorno a un autore così proteiforme e spesso indecifrabile che, però, indubbiamente si è non solo affacciato ma ha varcato la frontiera della religiosità usando come passaporto la Bibbia, il cui repertorio di citazioni e allusioni è minuziosamente catalogato da questa trilogia che è ben più di un’esercitazione tematica «esegetica» ma – come si diceva – una vera e propria biografia spirituale e culturale del «menestrello». Un personaggio – se è lecita un’appendice personale – che ho avuto l’occasione di ascoltare e vedere dal vivo in un contesto sorprendente: al congresso eucaristico di Bologna il 27 settembre 1997, mentre si esibiva davanti a Giovanni Paolo II, proprio col suo celebre Blowin’ in the Wind.

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Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan, Áncora, Milano, I volume: Dalle canzoni di protesta alla vigilia della conversione (1961-1978), pagg. 377, € 26,00. II volume: Il «periodo cristiano» e la crisi spirituale (1978-1988), pagg. 331, € 26,00. III volume: Un nuovo inizio e la maturità (1988-2012), pagg. 424, € 26,00

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in “Il Sole 24 Ore” del 2 settembre 2018