Mio padre, Aldo Moro, morto per la democrazia

Agnese Moro

Aldo Moro, come tanti della sua generazione, era un combattente. Condivideva con gli altri italiani, e con una moltitudine di innovatori di tutti i continenti, il desiderio di costruire un mondo in pace, dove al centro dell’attenzione e della cura di tutti ci fossero le persone, ogni persona, di cui andava difesa la possibilità di vivere, la dignità, il riconoscimento di giuste condizioni di vita e la tutela dei diritti; la libertà di crescere e di sviluppare la propria personalità, di assumere delle responsabilità, di essere parte integrante e indispensabile del governo del Paese.

Sono queste le speranze che animano la nostra Costituzione, alla cui formulazione mio padre ha dato un decisivo contributo con la limpidezza delle sue idee e con la profonda cultura giuridica. Speranze opposte a quelle della triste esperienza fascista (non a caso la nostra Costituzione è antifascista) dove la vita delle persone contava meno di niente mentre lo Stato, dei ricchi e dei potenti, era tutto; per dirla con uno slogan di Benito Mussolini: «tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato». Nella nuova Italia, invece, lo Stato non era più considerato un fine, ma uno strumento con cui la Repubblica (tutti noi) si organizza per raggiungere i propri obiettivi.

Le speranze che animano la nostra Costituzione hanno definito anche gli obiettivi della vita di Aldo Moro e guidato il suo impegno politico, la sua attività di docente universitario, la sua militanza nella società, e incarnato il suo cammino di cristiano. La democrazia repubblicana ha avuto tanto bisogno di combattenti, perché il mondo nuovo così fortemente voluto ha dovuto misurarsi con le resistenze, spesso feroci, di coloro che, nel cambiamento, avevano perso privilegi e risorse. La Repubblica, tra mille inciampi e contraddizioni, ha lavorato infatti per cambiare gli equilibri di potere, mettendo in campo con il voto e con la militanza politica milioni di persone fino ad allora escluse da tutto, ridistribuendo risorse materiali (energia, uso delle terre) e immateriali (istruzione e salute per tutti), proteggendo il lavoro (statuto dei lavoratori) e la libertà delle donne (voto, nuovo diritto di famiglia, accesso a professioni come la magistratura). Scrive Moro nel 1975: «Via via, nel corso di questi trent’anni, un sempre maggior numero di cittadini e gruppi sociali, attraverso la mediazione dei partiti e delle grandi organizzazioni di massa che animano la vita della nostra società, ha accettato lo Stato nato dalla Resistenza.

La Resistenza Si sono conciliati alla democrazia ceti tentati talvolta da suggestioni autoritarie e chiusure classiste. Ma, soprattutto, sono entrati a pieno titolo nella vita dello Stato ceti lungamente esclusi. Grandi masse di popolo guidate dai partiti, dai sindacati, da molteplici organizzazioni sociali, oggi garantiscono esse stesse quello Stato che un giorno considerarono con ostilità quale irriducibile oppressore. Se tutto questo è avvenuto nella lotta, nel sacrificio, è merito della Resistenza, di un movimento cioè che si è mosso nel senso della storia, mettendo ai margini l’oppressione antidemocratica e facendo spazio alle forze emergenti e vive della nuova società».

Aldo Moro, un combattente. Con quali armi? Quelle pacifiche, ma esigenti della politica: conoscere i problemi, lavorare, viaggiare, riflettere, disarmarsi, ascoltare, discutere, rispettare l’interlocutore e riconoscergli pari dignità, dialogare, spiegare, convincere, coinvolgere. Le battaglie Per quali battaglie? Non è possibile ovviamente ricordare qui le stagioni e gli impegni della sua vita pubblica. Rimando volentieri al bel lavoro fatto dal Centro di documentazione Archivio Flamigni, pensato per i giovani e disponibile per tutti sul sito http://www.aldomoro.eu/mostra. Mi limito a ricordare qualche punto di attrito che illuminano un po’ il senso delle sue battaglie e delle sue solitudini, compresa quella – terribile – dei 55 giorni della sua prigionia. Molte delle inimicizie da lui guadagnate riguardano la costanza con cui si spese per allargare a tutti lo spazio della responsabilità politica, come nei casi dell’apertura da segretario della Dc ai socialisti alla fine degli anni ’50 (che lo portò anche sull’orlo della scomunica); la critica radicale ai partiti per la loro incapacità di accogliere il nuovo che negli Anni 60 veniva da una società più partecipe ed esigente e dalla richiesta di giustizia dei giovani; il coinvolgimento delle nuove democrazie post coloniali in un dialogo rispettoso; ancora il coinvolgimento dei singoli Paesi dell’area sovietica in una politica di distensione e di pace; la strategia dell’attenzione nei confronti del Pci della metà degli Anni 70.

La grande destra Lo detestò nel corso della sua vita (e ancora lo detesta) la «grande destra», quella che difende i vecchi interessi, che vuole tornare indietro e restarci perché nulla cambi; l’ha detestato chi voleva quella politica tiepida che trova il suo orizzonte dove finisce il mondo dei partiti e dei corridoi; l’ha detestato da sinistra chi – come i militanti della lotta armata -vedeva nella democrazia che funziona un freno al desiderio di rivoluzione. Le sue vittorie? Almeno quella di aver contribuito con il suo impegno e con tutta la sua persona a far sì che un popolo umiliato, povero, scoraggiato, oppresso trovasse modo di rialzarsi e, in maniera solidale, se pure tra mille difficoltà, di crescere insieme. Forse per questo nei lunghi 40 anni passati dall’uccisione delle care persone che vegliavano su di lui e dalla sua stessa morte tante donne e tanti uomini «comuni», delle più diverse età e provenienze, mi hanno parlato di lui come di «uno di noi»; frase che mostra come tantissime famiglie e tantissime persone abbiano sentito che i propri personali sforzi di miglioramento e di riscatto erano stati accompagnati dal lavoro e dall’impegno senza riserve di mio padre perché ognuno, ma proprio ognuno, potesse avere «il suo libero respiro»

in “La Stampa” del 25 febbraio 2018