Archivi tag: nazionalismo

Un allarme in Germania per le sirene post-fasciste

DONATELLA DI CESARE

In Germania la crisi morde. Basta farsi un giro per le periferie delle grandi città – Amburgo, Berlino, Monaco – ma anche nelle cittadine e nei borghi di provincia. E questa volta l’impressione è che si tratti di una crisi strutturale e grave, che non riguarda solo la produzione. D’altronde c’era da aspettarselo. La Germania degli ultimi decenni si era proiettata a Est, verso la Russia e verso la Cina, con investimenti a largo raggio, dall’industria alla cultura.

Il terremoto della terza guerra mondiale l’ha investita in pieno destabilizzandola profondamente – forse più di quanto avvenga in altri Paesi europei (a parte l’Italia). D’un tratto emergono tutte le contraddizioni della politica tedesca, affiorano i problemi che gli ultimi governi (Merkel compresa) avevano lasciato sotto il tappeto. La differenza, però, rispetto a prima sta nelle difficoltà evidenti dei partiti tradizionali, soprattutto del Spd, che appaiono sempre più sopraffatti dalle sfide che hanno di fronte. L’emblema di ciò è Olaf Scholz, uno sbiadito burocrate che avrà certo competenze settoriali, ma che finora si è distinto per la sua assenza (lamentata da molti concittadini) e la sua mancanza di feeling e senso politico.

La vera novità nella Germania di oggi è costituita però da una frattura, che non si era mai vista nelle forme attuali, tra una destra estrema, che si fa partito preparandosi a prendere il potere, e quella che chiamerei una “sinistra diffusa”, democratica e antifascista, che si è letteralmente riversata nelle piazze. Si tratta di una sinistra che, pur non sentendosi in buona parte rappresentata e unita da un partito, non è disposta a indietreggiare.

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La luce di Hannah Arendt nell’orrore del nazionalismo

NADIA URBINATI

Perché leggere Hannah Arendt è importante in questo tempo che mostra tutto l’orrore del nazionalismo? Lo è perché esplorare progetti diversi da quello che predica «una nazione, uno stato» è vitale. Hamas e Netanyahu coltivano piani speculari (quale che sia la potenza di cui dispongono per realizzarli): liberare il territorio dagli “altri”. Espellere e uniformare.

Si tratta di un piano coerente all’ideologia nazionalista nella quale è tracimato una parte del sionismo, con l’integrazione di una lettura religiosa dell’identificazione di stato e nazione. Era questo il rischio mortale intuito con straordinaria lucidità da Arendt, la “indesiderata”, colei che, ha detto in una recente conferenza Jonathan Graubart dell’università di San Diego, non ha mai nascosto la sua profonda diffidenza per le negative potenzialità del sionismo e per questo restò un “paria” tra gli ebrei.

Va detto che la posizione di Arendt sulla questione israelo-palestinese non restò immutata nel tempo. Si era subito opposta alla creazione di uno stato nazionale ebraico in Palestina; durante la Seconda guerra mondiale si era tuttavia anche espressa contro la creazione di uno Stato binazionale arabo-ebraico. Rifiutando entrambe le alternative, Arendt si schierò a favore dell’inclusione della Palestina in una federazione multietnica che non fosse composta solo da ebrei e arabi.

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L’era della paura e della regressione

DACIA MARAINI

Il nazionalismo, il disprezzo dell’altro e delle donne, il degrado linguistico Anatomia della crisi che sta attraversando il nostro

Paese Tempi di paura. Tempi di regressione. Ma che legami ci sono fra la prima e la seconda parola? Come si arriva dalla paura alla regressione? E inoltre: paura di cosa? perché? William Reich lo psicoanalista ebreo austriaco fuggito dal nazismo negli anni Trenta del secolo scorso, analizzando l’ascesa del nazionalismo razzista ci dice che quando i popoli sono presi dalla paura tendono a fare branco, creando una solidarietà fra simili basata sul rifiuto dell’altro. Il branco ha bisogno di un capo, non importa se canaglia, violento, rapace. Il branco obbedisce a un primitivo bisogno di difendere l’identità minacciata contro tutto e tutti senza elaborare strategie o pensieri politici, spinto solo dal desiderio di sopravvivere.

Il capo prescelto deve sapere reprimere la libido personale per suscitare gli istinti più arcaici di rapacità collettiva. La libido deve trasformarsi in voglia di guerra. L’uomo impaurito insegue promesse fasulle, facendo tacere perfino i suoi più realistici interessi, per rincorrere un menzognero sogno di gloria e di rivendicazione.

Le paure, dice Reich, sono collettive e sono prodotte da pandemie, crisi economiche, guerre perdute, spostamenti di popoli o gravi cambiamenti sociali. Possiamo dire che, per lo meno per quanto riguarda la pandemia e la crisi economica ci siamo. Le conosciamo tutte e due e sappiamo come, di fronte all’equilibrio di un esperto come Draghi si è preferito affidarsi a un partito che porta sul suo simbolo la fiamma fascista. Paura della pandemia e paura della crisi economica stanno creando grossi problemi di identità, aggravati dalle masse di immigranti che nessuno riesce a fermare.

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La guerra è sempre una sconfitta per tutti

ROBERTO PAGLIALONGA

«La guerra è sempre una sconfitta per tutti. Pertanto, le soluzioni vanno cercate nella complessità della realtà. Conoscere la “profondità della storia” serve proprio a questo, ovvero a mettere insieme i diversi frammenti e a costruire un noi più grande dell’io». Si è espresso così il presidente della Cei, cardinale Matteo Zuppi, alla presentazione del libro di Andrea Riccardi Il grido della pace (San Paolo), che si è svolta ieri sera a Roma nella sede trasteverina della comunità di Sant’Egidio. Confermando, nella risposta ai giornalisti, di avere incontrato il Papa di ritorno dalle sue missioni a Mosca, la più recente, e prima a Kyiv, come inviato speciale del pontefice, e di aver parlato con lui della priorità di oggi, che è «quella di lavorare per i più svantaggiati, come i bambini, e vedere se si riesce ad avviare il meccanismo per farli ritornare a casa, e aiutare perciò la parte umanitaria. Speriamo che si cominci dai più piccoli, da quelli che sono più fragili. I bambini devono poter tornare in Ucraina», ha sottolineato ancora.

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Nazionalismi di ieri e di oggi

MARIA GRAZIA RECUPERO

1. Nazione e nazionalismo

Il nazionalismo è l’indirizzo culturale che, in formulazioni molteplici e talvolta contrastanti, attribuisce un ruolo centrale all’idea di nazione e sostiene la necessità di promuovere lo sviluppo autonomo delle singole nazioni. «Tutte le costituzioni politiche, repubblicane o di altro tipo, hanno come unico fine – se sono legittime – d’impedire o almeno limitare l’oppressione verso la quale la forza inclina naturalmente. E quando c’è oppressione non è una nazione ad essere oppressa. È un uomo, e un uomo, e un uomo. La nazione non esiste; come potrebbe essere sovrana?». In queste parole lapidarie di Simone Weil, scritte durante la Seconda Guerra Mondiale, si condensa la sua critica alla sovranità astratta e impersonale della nazione, che oggi appare profondamente colpita. Si pensi alla violenza di certi populismi contro le categorie politiche classiche, in primis quella di sovranità, ma anche quella di rappresentanza. Ancor più di recente, una guerra che sembra essere scoppiata improvvisamente, quando piuttosto è scaturita dal disinteresse globale nei confronti di popoli a lungo travagliati da confini incandescenti. Simili escalation, dai risvolti drammatici quando non tragici, si esprimono sotto il segno comune di nazionalismi risorgenti.

Per cogliere il nazionalismo come problema del nostro tempo, riprendo il termine “nazione” che nel suo significato originario affiora dal fenomeno della vita, connotando dimensioni naturali, impolitiche per eccellenza. Deriva infatti dal latino natio – a sua volta forma sostantivata del verbo nascor, ossia “nascere”. Come si dirà in seguito, la massima degenerazione dell’intreccio tra la matrice biologica da cui deriva il nazionalismo e le sue declinazioni politiche si manifesterà col nazismo. Ma facciamo un passo indietro. Perché l’idea di nazione assuma la potente carica identitaria che la connota politicamente, occorre attendere le grandi trasformazioni seguite alla Rivoluzione francese del 1789. Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino leggiamo, in effetti, che «Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione; nessun corpo, nessun individuo, può esercitare un’autorità che non emani direttamente da essa».

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Centenario del Milite ignoto, l’insegnamento è il «rifiuto della guerra»

DAVIDE CONTI

La retorica celebrativa, ovvero il linguaggio pubblico utilizzato dagli Stati come espressione politica delle proprie liturgie civili, genera inevitabilmente una contraddizione esplicita tra il racconto epico ed il principio di realtà della storia.

Così il centenario del Milite Ignoto, la traslazione dei resti di un soldato caduto al Vittoriano, si trasforma da occasione di rielaborazione collettiva attorno ai significati epocali della devastazione della guerra mondiale (drammaticamente al centro del nostro presente nell’era del conflitto globale) a strumento declamatorio di processi unificanti che, giocoforza, si presentano come più immaginari che reali di fronte ai fatti della storia: dai massacri dei campi di battaglia alla distruzione dell’Europa; dalle fucilazioni degli stessi soldati italiani (ancora oggi non riabilitati ed espulsi dal racconto nazionale) ordinate dai Tribunali militari speciali sulla base delle circolari del generale Cadorna, alla successiva brutalizzazione della vita civile restituita dal ritorno dalle trincee dei reduci travolti da quell’esperienza totale.

Questo centenario si sarebbe potuto configurare come un’opportunità per guardare da un lato alla traiettoria storica percorsa dalle masse contadine, operaie, proletarie e sottoproletarie (che pagarono il prezzo più alto alla guerra in termini sociali e di vite umane) al tempo della loro irruzione nella sfera pubblica; dall’altro alla condotta della monarchia sabauda e delle classi proprietarie e militari italiane che a quell’«inutile strage», come la definì Benedetto XV, condussero l’intera società.

In realtà l’eterna narrazione, promossa oggi dalle stesse classi dirigenti e politiche del Paese, di una presunta debolezza dell’identità nazionale finisce per riproporre, nel discorso pubblico, temi e caratteri propri del nazionalismo volti a rappresentare un vincolo astratto tanto tra i caduti in battaglia ed uno Stato incarnato dal re come padre della patria, quanto dalla nazione come corpo unico-organico e madre dei figli-soldato.

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