Archivi tag: Dialogo interreligioso

Uno scudo per la sicurezza delle fedi. Il Progetto europeo “Shield”

SCIALOM BAHBOUT

Arriva da Bruxelles una formula per avviare la coesistenza tra ebrei, musulmani e cristiani in una cornice europea. Alla presenza della Program Manager Tamara Munoz della Commissione Europea e di rappresentanti di 10 paesi europei si è svolta la conferenza finale del Progetto Europeo “Shield” cui hanno partecipato rappresentanti delle tre fedi monoteistiche.

Il progetto si propone di individuare e proporre soluzioni concrete su questioni calde di interesse comune. Uno dei problemi cui tutti si sono rilevati molto sensibili è valutare rischi e vulnerabilità dei luoghi di culto rispetto a potenziali attacchi terroristici; allo scopo di fornire linee guida concrete per incrementarne la sicurezza.

Infatti, gli attacchi terroristici finiscono per danneggiare tutti, anche i gruppi religiosi cui appartengono gli autori dell’attentato. Prima della conferenza finale, si sono svolti nel corso degli ultimi due anni vari incontri per avviare il dialogo su come coinvolgere esperti nel campo della sicurezza onde evitare il diffondersi dell’estremismo religioso. Si è parlato di come vadano coinvolti operatori di sicurezza, forze dell’ordine, ricercatori sociali e partner tecnologici. Durante il progetto è stata condotta un’analisi approfondita degli attacchi violenti contro i luoghi di culto negli ultimi vent’anni e sono state individuate misure e soluzioni concrete per garantirne la salvaguardia. I rappresentanti delle Comunità religiose destinatari finali del progetto, hanno giocato un ruolo determinante nel fornire indicazioni e spunti di riflessione culturali.

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Il dialogo del Papa con l’Islam spirituale

MARCO IMPAGLIAZZO

A causa del nuovo conflitto in Medio Oriente e del suo possibile allargamento, gli occhi del mondo sono puntati nuovamente sull’Iran e sui suoi alleati nella regione. Di conseguenza anche su tutto il mondo sciita. Ma è importante ricordare che all’interno dell’Islam e degli stessi sciiti sono tante le differenze religiose, di visione politica, culturale e antropologica. Gli sciiti, rappresentano il gruppo minoritario più rilevante nel mondo musulmano, stimati tra il 10% e il 15% rispetto ai sunniti, ma costituiscono la maggioranza della popolazione in Iran, Iraq, Bahrein e Azerbaigian, mentre in Yemen e Libano superano un terzo della popolazione e sono molto influenti: Hezbollah nel primo paese e Ansar Allah nel secondo, ovvero i cosiddetti Houthi, ne sono l’espressione politica militante. Anche in Pakistan, Afghanistan, India, Kuwait, Arabia Saudita, Siria, Egitto, Turchia, Nigeria, gli sciiti costituiscono una minoranza significativa, talora superiore al 5%.

Da vari secoli, il cuore del mondo sciita batte tra l’Iraq arabo e l’Iran persiano. Mentre l’Iran è ormai da oltre cinque secoli uno Stato confessionale sciita, l’Iraq invece ne custodisce i più importanti luoghi santi: tra questi quello di Najaf, dove è sepolto l’imam ‘Ali, che ospita da dieci secoli un’autorevole scuola teologica sorta intorno alla sua tomba. Per lungo tempo la città di Najaf è stata parte dell’impero ottomano, che era ostile agli sciiti, e per reazione la sua scuola religiosa ha sviluppato un’interpretazione quietista, più spirituale e contemplativa, del rapporto tra Stato e religione, che in tempi recenti si è evoluta nel senso di una marcata divisione delle competenze e del sostegno a uno Stato non confessionale proprio da parte del Grande Ayatollah Ali Sistani e del suo predecessore, Abu al-Qasim al-Khoei.

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Politica e religioni: l’importanza del dialogo

MARIANO CROCIATA

Il fatto che questo sia il 25° incontro annuale del Gruppo di dialogo interculturale del Partito Popolare Europeo conferisce ad esso un carattere singolare. L’esistenza di un tale Gruppo è il segno di una scelta lungimirante e di un impegno consapevole nell’abbracciare la prospettiva del dialogo interculturale e interreligioso come parte integrante dell’impegno politico dei parlamentari del Partito Popolare. Questo oggi viene in evidenza in maniera del tutto speciale.

Che un partito politico si occupi di dialogo interculturale e interreligioso è l’espressione di una responsabilità volta a cogliere e a rappresentare anche le istanze sociali attivate dalla dimensione religiosa. Del resto, un partito attento alle dinamiche sociali e capace di guardare alla ricerca di un bene comune il più possibile integrale non può fare a meno di aprirsi a tale dimensione anche religiosa.

L’esperienza religiosa è, non da ora, di fatto e di diritto un fenomeno plurale nelle nostre società occidentali, sia per l’evoluzione interna della storia della cultura sia per l’inserimento di nuove presenze religiose a motivo dei flussi migratori.

Per queste ragioni diventa necessario seguire e accompagnare la convivenza tra diverse fedi e differenti culti, affinché la loro pacifica coesistenza e la loro positiva interazione prevengano tentazioni di conflitto ma, al contrario, diventino una risorsa per la collettività tutta.

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L’iman e il rabbino in dialogo: fermiamo l’educazione all’odio

Alfonso Arbib e Yahya Pallavicini, intervistati da Andrea Lavazza e Riccardo Maccioni

l tragico incendiarsi della crisi mediorientale provocata dal feroce attacco terroristico del 7 ottobre di Hamas contro Israele e la durissima reazione dello Stato ebraico chiama in causa diversi fronti. Dalla politica internazionale ai rapporti di forza in ambito locale, fino alla drammatica questione umanitaria contrassegnata dalla vicenda degli ostaggi israeliani alla tristissima conta giornaliera dei morti a Gaza. In uno scenario tanto cupo le religioni possono avere un ruolo fondamentale, come evidenziano i ripetuti appelli alla pace lanciati in più occasioni da diversi leader a partire da papa Francesco e, triste contrappasso, l’ondata di antisemitismo che percorre il mondo con numerosi focolai particolarmente violenti in Europa oltreché nello stesso Medio Oriente. Di questi argomenti “Avvenire” ha parlato con rav Alfonso Arbib, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana, e l’imam Yahya Pallavicini, vicepresidente Coreis (Comunità religiosa islamica italiana).

La prima domanda potrebbe essere anche la conclusione del nostro discorso e riguarda le speranze in una soluzione della crisi mediorientale. Quante possibilità di pace ci sono oggi?

Pallavicini: Non c’è mai un momento in cui spiritualmente o dottrinalmente si debba rinunciare a perseguire la pace, anche se volendo pensare a una pacifica convivenza tra popoli e credenti le condizioni in Medio Oriente appaiono molto complesse. I problemi sono soprattutto legati alla sfera orizzontale per cui si devono cercare soluzioni politiche, diplomatiche realmente sostenibili, evitando proposte vecchie o nuove che non siano percorribili.

Arbib: È complicato parlare di pace in questo momento, anche se ovviamente è la speranza di ognuno di noi e non esiste momento o situazione in cui un credente possa rinunciare a perseguirla. I nostri maestri dicono che se non c’è pace non c’è niente. Come ci si può arrivare non lo so. Credo

che alla base ci sia innanzitutto un problema educativo e culturale, che sia necessario smettere di educare all’odio, come è avvenuto per intere generazioni. Prendiamo la parola “shalom”, pace, che ha la medesima radice in arabo e in ebraico. Viene da “shalem” che sta a indicare l’integrità, concetto che può portare a dire “sono perfetto, gli altri devono adeguarsi alla mia perfezione” o invece essere un modo per riconoscersi imperfetti, pieni di difetti e bisognosi di migliorarsi. Il primo approccio porta al conflitto, il secondo può aprire alla pace. Non è semplice, ovviamente, ma ammettere i propri limiti è un punto di partenza.

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«Trascendenza e fratellanza»

STEFANIA FALASCA

Domenica scorsa l’incontro interreligioso, insieme a dodici rappresentanti di altri culti, nel teatro della capitale a forma di “ger” Il richiamo di Francesco: «Le tradizioni religiose rappresentano un formidabile potenziale di bene messo al servizio della società». «La nostra responsabilità qui è grande, specialmente in quest’ora della storia».

Sulla montagna Bogd Khan Uul, che da sud domina la capitale mongola Ulan Bator, papa Francesco è arrivato puntuale domenica mattina all’appuntamento per l’incontro ecumenico e interreligioso nel «cuore del grande e decisivo continente asiatico». Il dialogo è urgente in nome della pace e della cooperazione e la Mongolia, a maggioranza di fede buddista, è oggi un caleidoscopio di religioni. Giusto un anno fa, il 14 settembre, sempre in Asia, il Papa aveva partecipato al settimo Congresso dei Leader delle Religioni mondiali e tradizionali riunitasi nella capitale del Kazakistan e firmato una Dichiarazione congiunta. Allo Hun Theatre di Ulan Bator a forma di ger – l’antichissima abitazione dei popoli nomadi dell’Asia centrale a forma circolare e con apertura centrale sul soffitto – papa Francesco si è seduto accanto a dodici rappresentanti locali di buddismo, induismo, islam, shintoismo, sciamanesimo, ebraismo, delle Chiese ortodosse ed evangeliche e ha ringraziato il popolo mongolo «che può vantare una storia di convivenza tra esponenti di varie tradizioni religiose».

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Papa Francesco, l’Islam e la ricerca del dialogo

LUIGI SANDRI

Da un Paese musulmano come il Bahrein, il papa è tornato a casa, dopo un viaggio di tre giorni, confortato nella sua opera di dialogo tra le religioni e nelle religioni per favorire la giustizia e la pace ma, anche, consapevole delle difficoltà dell’impresa, come documentato dalla perdurante repressione in Iran contro le pur legittime proteste delle donne per la difesa dei loro diritti.

La dinastia che controlla il Bahrein, gli Al Khalifa, è sunnita, ma la maggioranza della popolazione del regno è sciita: sono dunque rappresentate le due maggiori e contrapposte correnti che fin dagli inizi (VII secolo) rappresentano l’Islam. Il contrasto tra loro fu originato da una diversa concezione del diritto di successione al profeta Muhammad: i sunniti, oggi idealmente guidati dall’Arabia saudita, ritengono che esso debba essere scelto dai fedeli; gli “sciiti”, guidati soprattutto dall’Iran, ritengono che la successione dovesse avvenire per via di sangue.

Però se in Arabia saudita vi è coincidenza tra la religione della gente e quella del potere, in Bahrein invece non è così. Perciò nel regno gli sciiti (il 46% degli abitanti) sono in imbarazzo: da una parte perché non hanno reale rappresentanza politica (i dirigenti di un loro partito operano di fatto in esilio, dal Cairo); e, dall’altra, perché gli ayatollah al potere in Iran schiacciano con la forza la protesta delle donne.

In tale contesto si pone il riserbo di Francesco che dal Paese non ha lanciato uno specifico e solenne appello di solidarietà alle manifestanti iraniane.

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Il papa nel Bahrein tra musulmani sciiti e sunniti

LUIGI SANDRI

Il contrasto intra-musulmano tra “sunniti” (guidati dall’Arabia saudita) e “sciiti (guidati dall’Iran) peserà sul viaggio che il papa si appresta a compiere dal 3 al 6 novembre, per partecipare al «Bahrain Forum for Dialogue: East and West for Human Coexistence».

Francesco ha visitato, finora, diversi Paesi massicciamente sunniti, ad iniziare dall’Egitto, e paesi, come l’Iraq, che per anni hanno avuto al governo i sunniti, pur essendo la popolazione, in maggioranza, sciita. Ed analoga è la situazione del Bahrein, un emirato – già protettorato britannico – insinuato in fondo al Golfo, ricchissimo di petrolio, vasto poco più della Val di Non, e popolato da 1,5 milioni di abitanti, al 46% sciiti, al 24 % sunniti, e con una significativa presenza di cristiani, immigrati da varie zone del Medio Oriente e dall’India.

Storicamente, dunque, il Paese potrebbe essere un “ponte” tra la confinante Arabia e il non lontano Iran; tuttavia, siccome la dinastia è sunnita, nei tempi recenti non sono mancati aspri contrasti sociali e politici, dato che la maggioranza della popolazione è sciita. Il convegno al quale Bergoglio parteciperà dice già nel titolo l’ambizione dell’emirato: essere un arco che congiunge l’Oriente e l’Occidente per favorire la coesistenza umana tra il mondo musulmano e quello cristiano; una collaborazione che aiuta la pace nel mondo.

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Religione. Libertà religiosa e dialogo interreligioso

FABIO PETITO

Lo scorso maggio, la nomina di un inviato speciale per la libertà religiosa e il dialogo religioso, nella persona di Andrea Benzo, da parte del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale del governo italiano è stata, indubbiamente, una buona notizia. In un contesto internazionale ove le persecuzioni e le discriminazioni delle minoranze religiose, la violenza settaria religiosa, nonché le violazioni della libertà di coscienza sono purtroppo in costante crescita – come viene ormai documentato dall’annuale report della US Commission on International Religious Freedom da oltre un decennio – è importante che i governi e la comunità internazionale rafforzino il loro sforzo per proteggere questo fondamentale diritto umano sancito dall’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Diritto umano che, purtroppo, per troppo tempo, è stato, nelle parole di un influente rapporto prodotto una decina di anni fa da una commissione parlamentare britannica, un “diritto orfano“.

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