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Galantino: tradisce la verità una Chiesa clericale. «Sinodalità, serve una spiritualità di comunione»

MIMMO MUOLO

Il Sinodo «non è una questione di aggiustamenti o riposizionamenti interni alla Chiesa. Un Sinodo così inteso è destinato a incidere davvero poco. Ce lo ricorda continuamente il Papa». Al contrario «una Chiesa che fa suo il metodo e i contenuti del cammino sinodale e che non smette – in tutti i suoi membri – di essere aperta all’azione dello Spirito in ordine alla realizzazione della communio, è una Chiesa che può contribuire con maggiore credibilità a rendere migliore questo mondo». Parola del vescovo Nunzio Galantino, presidente emerito dell’Apsa, che nei giorni scorsi è intervenuto alla presentazione dei volumi della Edb Sinodalità e comunione di Eugenio Corecco e Piccola scuola di sinodalità a cura di Lucia de Lorenzo e Massimiliano Proietti.

Galantino ha citato il teologo Yves Congar, quando diceva che in molti «persiste implicita l’idea che la Chiesa è fatta dal clero e che i fedeli ne sono solamente i beneficiari o la clientela. Questa orribile concezione si è impressa in così tante strutture e abitudini da sembrare scontata e impossibile da cambiare» E invece è tradimento della verità. C’è ancora molto da fare per declericalizzare la nostra concezione della Chiesa, senza ovviamente, attentare alla struttura gerarchica». Ne consegue che «la conversione invocata, prima del cambiamento delle strutture, richiede la maturazione di una spiritualità del “noi” ecclesiale”, come scrive Corecco. E dunque anche la sinodalità «richiede attitudini spirituali, che vanno coltivate e che non possono essere estranee ai percorsi di formazione di laici e ministri ordinati». In altri termini serve «una spiritualità della sinodalità che fa, di fatto, riferimento a una spiritualità di comunione, criterio di appartenenza alla Chiesa».

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L’indifferenza è complicità. Corruzione e mafie vanno contrastate con l’impegno di tutti

LUIGI CIOTTI, intervistato da LUDOVICO GARDANI

Don Ciotti, dal sondaggio congiunto di Demos e Libera emerge che il Pnrr continua a essere nella percezione comune perlopiù una sequenza di lettere, una sigla. La preoccupa questo?

«È un dato preoccupante, certo. Che segnala un deficit di partecipazione e un eccesso di delega. Dai fondi previsti e dal loro mirato e onesto utilizzo dipende il rafforzamento di settori decisivi per la salute della democrazia. La pandemia ha messo impietosamente in evidenza che nel nostro Paese — ma non solo nel nostro — i diritti sociali sono diventati in troppi casi privilegi dipendenti da dinamiche di mercato: se sei ricco hai diritto a lavoro, casa, istruzione, assistenza sanitaria, altrimenti arrangiati, sono fatti tuoi. Questa logica selettiva, esclusiva, è la morte della democrazia delineata nella nostra Costituzione. A fronte delle ingiustizie sociali, ovvero ai furti di bene comune, occorre un impegno comune, e questa ridotta conoscenza del Piano che quel bene collettivo dovrebbe alimentare, è un segnale preoccupante».

Al tempo stesso però il sondaggio segnala il timore di molti — l’88% degli intervistati — che i fondi del Pnrr diventino in parte preda delle organizzazioni criminali…

«Mi auguro che vengano messe in atto tutte le misure e procedure per sventare questo rischio. Un primo segnale potrebbe venire dal Governo con la nomina di un presidente della Commissione parlamentare antimafia a quasi due mesi dalla sua istituzione. Nomina tanto più urgente anche a fronte di quanto è scritto nell’ultima relazione al Parlamento della Dia, la Direzione investigativa antimafia. Rapporto che ci consegna un quadro inquietante: da un lato il consolidato primato della ‘ndrangheta, la sua capacità d’infiltrazione a livello non solo nazionale ma mondiale, dall’altro la tenuta delle altre mafie, Camorra e Cosa Nostra».

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Scuola. Diventare comunità educante

DONATO DE SILVESTRI

L’ art. 24 del Ccnl, riprendendo il Dl 297/94, afferma che la scuola é una comunità di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, improntata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni. In essa ognuno, con pari dignità e nella diversità dei ruoli, opera per garantire la formazione alla cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno e il recupero delle situazioni di svantaggio, in armonia con i principi sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, approvata dall’Onu il 20 novembre 1989, e con i principi generali dell’ordinamento italiano”.

È un’affermazione ricca di significati, che qualifica la scuola in termini di pluralità, di relazioni, di inclusione, di progettualità partecipata. Ma cosa si intende per comunità? E quali sono i presupposti di una comunità educante oggi e in prospettiva futura?

UN PO’ DI STORIA

Il concetto di comunità rinvia a quello di endogruppo, ossia di un’entità interna che rimarca i confini tra chi sta dentro e chi fuori. Gallissott (1) ne individua i tratti fondamentali nell’intensità delle relazioni sociali, nel senso di vicinanza e solidarietà, nella condivisione della lingua e delle pratiche di consumo, negli scambi rituali, in segni di riconoscimento e manifestazioni, anche religiose, di affermazione collettiva. In ogni caso quello della comunità è un argomento che ha da sempre interessato la ricerca sociologica, la quale, in estrema sintesi, ha seguito due diversi approcci. Il primo è quello psicologico che ha focalizzato l’attenzione sulla qualità dei rapporti individuali e sull’influenzamento reciproco, sulla rilevanza degli atteggiamenti solidali, sul livello di integrazione ed inclusione, sull’identificazione e sul senso di appartenenza, nonché sull’amare.

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Scuola. Come educare alla partecipazione e alla democrazia

PIETRO CALASCIBETTA

Non manca certamente nel nostro sistema d’istruzione una vasta normativa che assegna alla scuola un ruolo centrale nella formazione alla democrazia partecipativa. Tuttavia, l’astensionismo crescente e il disinteresse, soprattutto tra i giovani, che rileviamo, per esempio, in ogni tornata elettorale, pone l’obbligo di riflettere su che cosa non abbia funzionato nel tradurre le norme in pratica didattica e che cosa si possa fare ora per rendere più efficace tale azione prima che sia troppo tardi. Riuscire a riconoscere i nostri punti deboli ci aiuta a individuare le possibili soluzioni.

La democrazia è partecipazione attiva

Il nodo centrale di una formazione alla cittadinanza per fare delle scuole dei «cantieri di democrazia»[1] non sta solo nel conoscere la Costituzione con i principi e i valori in essa contenuti, ma nel sapere come fare ad applicarli nella vita reale di tutti i giorni. Non basta averne «l’idea», serve soprattutto «l’arte di governare». L’unico modo per imparare una competenza è esercitala concretamente: le competenze si costruiscono con l’esperienza del fare e con la riflessione sul come si è fatto. La democrazia è, innanzitutto, partecipazione attiva, la si impara esercitandola e riflettendo sui processi messi in atto.

Gli organi collegiali: un’occasione mancata

L’introduzione nel 1974 degli organi collegiali poteva essere l’occasione per fare della comunità scolastica un vero e proprio laboratorio dove esercitare la pratica della partecipazione attiva alla vita di una comunità. Sarebbero dovuti diventare i contesti privilegiati per costruire e “allenare” le competenze di cittadinanza democratica e di formazione civica sia negli studenti, sia negli adulti. Nonostante le possibilità offerte dall’autonomia, non si è colta tale funzione formativa.

Ci sono state probabilmente omissioni e superficialità. Per esempio, nel corso degli anni non ci si è preoccupati di sostenere e formare almeno i rappresentanti eletti. Ciò era stato previsto, seppure a livello teorico, per le Consulte provinciali degli studenti, dove era prevista la presenza di un docente referente[2] con una funzione educativa oltre che tecnica[3].

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Nessuno può battere il male da solo

BRUNO FORTE

(…). al termine di un altro anno segnato dalla pandemia da CoVid 19, vorrei invitare a riflettere su che cosa significhi sperare in un momento difficile come quello che stiamo vivendo. Per molti oggi la speranza si riduce al desiderio che il flagello del CoVid passi al più presto, in modo da poter riprendere una vita “normale”, senza paure e distanziamenti, senza bollettini giornalieri di contagiati e di morti. Un’affermazione di Papa Francesco mette in discussione quest’idea: «Peggio di questa crisi – ha affermato il Papa nell’omelia di Pentecoste, il 31 maggio 2020 -, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi». Il virus e le sue conseguenze sono certo un male, da cui tutti vorremmo uscire. Non imparare niente da quanto abbiamo vissuto sarebbe, però, il modo peggiore di uscirne. Mi soffermo allora su tre aspetti che l’esperienza vissuta potrebbe aiutarci a riscoprire della speranza, in particolare di quella che per la fede cristiana si è fatta visibile nel Bambino avvolto di luce nella mangiatoia del presepio.

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