Scuola. Inclusione, equità, qualità, merito. Aspetti non separabili

TIZIANA PEDRIZZI

PISA 2022 ci dice che l’Europa 2000-2024 non ha realizzato seri miglioramenti negli apprendimenti di base.

Alcuni commentatori sostengono che le elezioni europee appena concluse segneranno soprattutto il passaggio da un’agenda focalizzata sulla transizione ecologica ed informatica ad una più orientata a tematiche politiche ed economiche (Agenda Draghi). La cosa potrebbe in qualche modo riguardare la scuola?

Due eventi recentissimi.

Il recente convegno di Scuola Democratica del 3-6 giugno a Cagliari, il cui focus viene così messo a fuoco nel comunicato finale: “il complesso delle attività svolte ha messo in luce il valore dell’inclusività dell’educazione di fronte alle persistenti povertà, all’aumento delle disuguaglianze e alla sfida delle diversità (di genere, di cultura, di etnia, di religione e di disabilità)”. Titoli delle sessioni: “Autonomia e alleanze per colmare i divari educativi”, “La segregazione scolastica in Italia e in Europa: i risultati della ricerca possono migliorare le strategie locali per l’educazione inclusiva?”, “La pluralità dei divari. Territori, competenze, tecnologie, generi, ecologie”, “Ragionare di giustizia sociale con gli studenti, a scuola, nella società e nel mondo”.

Il 18-19 giugno è stata realizzata da OCSE la presentazione del terzo volume di analisi dei risultati di PISA 2022 con oggetto la creatività. L’attenzione di OCSE si è focalizzata molto negli ultimi tempi sugli skills non cognitivi ed in particolare sullo sviluppo della creatività in educazione e sulle metodologie per sostenerla. E se anche OCSE è un’organizzazione internazionale, le sue analisi e le sue attenzioni hanno indubbiamente come bersaglio anche l’Europa. Alcuni risultati: le ragazze superano i ragazzi non solo per il livello dei risultati generali ma anche – novità – per la creatività. La classifica dei Paesi corrisponde più o meno a quella degli ambiti cognitivi, a dimostrazione del fatto che – contrariamente a quanto ritengono i giovani leoni ruggenti italiani – non è che più si è ignoranti, più si è creativi. Il framework delle prove è stato comunque giustamente messo a disposizione, poiché si tratta di ambiti delicati e soggetti a possibili manipolazioni.

Da questi due focus di organizzazioni autorevoli si dovrebbe dedurre che la scuola europea oggi ha solo il problema di ridurre le diseguaglianze interne e di incrementare skills che sono da considerarsi di più alto livello.

Ma forse PISA 2022 ci dice anche altro: l’Europa dal 2000 al 2024 non ha realizzato significativi miglioramenti nel campo degli apprendimenti di base, con l’eccezione di alcuni Paesi dal mondo ex-sovietico, chiaramente tenuti in precedenza in condizioni inferiori alle loro possibilità. Inoltre, lo zoccolo duro, sostanzialmente maschile, degli allievi ai livelli più bassi di competenze di base, inferiori a quelli ritenuti necessari, ha dimostrato una significativa persistenza ed i livelli di eccellenza continuano ad avere una macroscopica debolezza, a fronte di quelli di società paragonabili e soprattutto di quelli dell’East Asia.

La consapevolezza di questa situazione è molto scarsa nel nostro Paese, ma anche in Europa. La responsabilità è prima di tutto delle istituzioni. Il primo rapporto europeo sul tema, che mette a fuoco quanto ci si è limitati a riprendere sopra, è del gennaio di quest’anno ed è a cura del Direttorato generale per l’Educazione – commissaria bulgara – The twin challenge of equity and excellence in basic Skills in the EU. An EU comparative analysis of the PISA 2022 results.

Tuttavia la produttività del sistema scolastico europeo, per come è stata nei dati problematizzata da PISA 2022 e messa a fuoco dal Rapporto UE sopra citato, non sembra per ora all’ordine del giorno.

I cittadini europei hanno vissuto dal 1946 per più di 70 anni in una condizione economico-sociale ottimale, quanto meno sicuramente unica nella storia dell’umanità, seduti sulle ricchezze economiche e culturali accumulate – non si indaga qui come – negli ultimi secoli.

In questa situazione privilegiata, le nuove generazioni avrebbero dovuto accrescere le loro competenze in vista di uno sviluppo economico di alto livello, utilizzando sia la possibilità di una scolarizzazione allungata e qualificata, che la diminuzione demografica, che permette una concentrazione delle risorse disponibili delle famiglie e delle società sui singoli. E lasciando i lavori meno qualificati alla nuova immigrazione che ne abbisogna e li accetta come “tassa di entrata”, senza creare contraddizioni e concorrenza fra i due mercati del lavoro. Questo è avvenuto in alcuni Paesi, come l’Estonia, ma certamente non in tutti e sicuramente non è avvenuto in Italia.

Infatti in Europa in questo lungo periodo la scolarizzazione universale si è consolidata ed allungata, ma gli investimenti effettuati non sembrano avere raggiunto i risultati attesi.

Da almeno 50 anni a livello pedagogico quali sono state le idee forza che hanno avuto un peso determinante nel campo della scuola? Semplificando, possiamo dire: inclusione, benessere a scuola e metodologie coinvolgenti, con attenzione all’affettività. I due poli sono complementari: l’inclusione/integrazione si è dimostrata possibile solo con un cambiamento di clima che porta anche, se non sostanzialmente, ad una maggiore facilitazione.

Facilitazione per tutti, perché mantenere metodologie diverse per filiere diverse con conseguentemente premialità diverse, si è dimostrato essere incompatibile con l’euforia generata dalla ricchezza dell’Europa che ha rifiutato la differenziazione e la gerarchizzazione. Come se il vantaggio accumulato nei secoli le potesse consentire di avere a propria disposizione abbastanza risorse da investire, senza ritorno in termini di incremento della produttività del sistema.

Con questo non si vuole intendere che i due obiettivi non siano giusti e/o necessari. Ma est modus in rebus.

L’inclusione è diventato il principale se non l’unico obiettivo dichiarato dei sistemi, il che non vuol dire necessariamente dei corpi insegnanti, ma sicuramente delle norme istituzionali all’interno delle quali questi necessariamente si muovono o per convinzione o per forza. Operazione più facile nei livelli scolastici in cui è più forte il legame con i principi pedagogici in chiave affettivo/relazionale (anni 0-14), rispetto a quelli in cui è più forte il legame con le discipline come elemento di identità e gratificazione (anni 14-19 in Italia).

Inoltre è sostanzialmente mancata una politica di promozione del merito, che anzi è stato ed è visto con sospetto, se non con ostilità, perché legato in generale – come molto sottolineato nelle ricerche – alle differenziazioni socioeconomiche. Non va dimenticato che OCSE ha sempre sottolineato che l’alfabetizzazione universale è necessaria per ragioni che qualcuno definirebbe funzionaliste: una società complessa deraglia se i cittadini non sanno come gestirla. Ma c’è stato poi un incrocio con la cultura dei diritti – sostanzialmente alimentata da una società affluente – e sono saltati tutti i tetti, tanto che oggi spesso sembra che sia l’inclusione e non l’alfabetizzazione l’obiettivo della scuola.

In secondo luogo, le modalità di apprendimento attive sono in realtà, oltre che necessarie, molto più impegnative e difficili di quelle tradizionali di mera restituzione, perché richiedono rielaborazione ed impegno personali, il che legittimamente non è da tutti e nemmeno omogeneamente in tutti i campi. Ma se ne è adottata una versione facilitata. Un curioso paper di giovani ricercatori asiatici al lavoro in Australia fa notare che anche ascoltare, rielaborando rispettosamente, è una modalità di apprendimento utile ed efficace e non solo “alzare continuamente la mano per esprimere il proprio parere non sempre interessante e fondato”, come secondo loro previsto dalle metodologie occidentali (in realtà fin qui soprattutto americane).

La conclusione è spesso una banalizzazione, una semplificazione del tutto, per proclamate ragioni di equità sociale. Ma così in realtà si assecondano le differenziazioni sociali, perché il ruolo della famiglia nel sostenere o no uno studio e più in generale una formazione che renda possibile il raggiungimento dei più alti livelli sociali, fa ancora di più la differenza.

Insomma, l’Europa può ancora attingere al proprio ricco patrimonio culturale, senza respingere le innovazioni che avanzano nel campo dell’intelligenza artificiale etc. e senza rinchiudersi in ristretti ed anacronistici campi nazionali; certo, non può pensare di vivere ancora a lungo nel Paese dei Balocchi grazie alla rendita accumulata dagli avi.

in Il Sussidiario, 28 giugno 2024

Contrassegnato da tag , , , ,