L’affaire Assange. Un processo che ha zittito il giornalismo d’inchiesta

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

Julian Assange, fondatore di WikiLeaks, a partire dal 2010 ha diffuso sul web centinaia di migliaia di documenti e video, che riportano episodi della guerra condotta dalle truppe americane in Iraq, resoconti di azioni militari, comunicazioni di varie ambasciate americane al loro governo. Esse riguardano le attività dei diplomatici nei vari paesi e i giudizi che essi davano dei governi e dei personaggi politici. Nessuno dei documenti, pubblicati e in parte poi diffusi da una rete di giornali occidentali, è stato smentito come non autentico. Ciascuno di essi e soprattutto il loro insieme sono di evidente interesse pubblico, nonostante il tempo trascorso tra i fatti rappresentati e la informazione al pubblico.

Un tratto essenziale di questa vicenda è la dimostrazione che sono superabili le barriere che i governi mettono a protezione dei loro segreti. Nell’attività di hackeraggio da lungo tempo svolta, Assange ha seguito il criterio di non danneggiare i siti nei quali si introduceva, ma di pubblicare quanto di interesse vi scopriva. Egli ha dimostrato che la protezione dei segreti non può essere assoluta. Il rischio di fughe (i leaks) è reale. Detto diversamente: nessuno può escludere che, prima o poi, l’opinione pubblica venga a conoscenza di ciò di cui i governi (democratici o meno) vogliono tenerla all’oscuro. Ogni volta l’opinione pubblica, la cui corretta informazione è alla base di tutti i regimi democratici, otterrà un incremento di conoscenza su ciò che realmente i governi hanno fatto e voluto nasconderle.

La raccolta e pubblicazione dei documenti di WikiLeaks, aldilà dell’interesse di questo o quello, ha avuto l’enorme effetto di rendere evidente che non è possibile proteggere per sempre i segreti (qui quello militare o diplomatico americano). La sola esistenza del rischio di violazione dei segreti ha un effetto di ammonimento e prudenza per chi, agendo, sa che, magari non subito, la notizia può divenire pubblica: certe cose si possono fare solo se si è sicuri che non verranno mai conosciute. La possibilità stessa di fughe di informazioni su ciò che si vorrebbe mantenere segreto può mettere un freno alla spregiudicatezza dell’agire dei governi (ma anche di imprese private, banche, ecc.). Ne è avvantaggiata la verità, contrastata la falsificazione, indebolita la propaganda. Un esempio: la scoperta che erano false le prove di possesso di armi di distruzione di massa, usate dai governi americano e britannico per giustificare la guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein.

Assange, senza giudizio sul fondamento delle accuse, ha passato in Inghilterra 5 anni nelle carceri inglesi, durante i ricorsi giudiziari contro la sua consegna alle autorità americane. La storia che ha vissuto e patito, nel suo eccesso repressivo, si comprende per il valore esemplare che si è voluto darle. Ad ammonimento di tutti coloro che pensassero di seguirne l’esempio. L’effetto è grave per uno dei pilastri della democrazia: la libertà di informare e di essere informati sui fatti di interesse pubblico. Essa è di grande importanza per tutti e ciascuno di noi, in ogni società che pretenda di essere democratica. La si trova enunciata in Europa fin dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e poi da tutte le Costituzioni e dalla Convenzione europea dei diritti umani. E analogamente dalla Costituzione degli Stati Uniti. Ha poco senso procedere all’elezione di parlamenti e governi, se gli elettori disinformati non conoscono i fatti rilevanti.

Non si può negare la necessità del segreto imposto su certe vicende, per il tempo necessario. Ma la segretezza dei documenti, al momento della pubblicazione da Assange, aveva comunque esaurito ogni potenziale giustificazione, se non quella del segreto per il segreto. Così la persecuzione di Assange ha voluto colpirne uno per impaurirne cento; perché ciò che egli ha fatto non abbia più a ripetersi. Bersaglio è stato la professione giornalistica tutta insieme, ben oltre il caso specifico. È vero che il giornalista ha doveri e responsabilità (così andrebbe verificato se sia vero che vi sono documenti che hanno creato pericolo per la vita di qualcuno). Ma i vari governi americani e britannici che si sono succeduti nel tempo hanno voluto avvisare i giornalisti investigativi, che lavorano forzando i segreti, di star lontani da quelli che scottano: la narrazione ufficiale e la propaganda non devono essere smentite. Ma nell’interesse della democrazia proprio quelle devono essere messe alla prova della verità.

in “La Stampa” del 26 giugno 2024

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