Sollievo. Reciprocità al centro delle azioni

NUNZIO GALANTINO

È possibile recare sollievo in situazioni di sofferenza, rispettando il pudore e l’intimità di chi è segnato da una ferita? Risponde a questa domanda Amets Arzallus Antia, giornalista e scrittore francese di lingua basca nel libro Fratellino (Feltrinelli).

Nessuna ricetta pronta per l’uso, ma il racconto di un incontro tra due bisogni, sempre avvertiti da persone mediamente consapevoli. In questo caso, il bisogno di Ibrahima Balde, alla ricerca del fratello partito con un barcone dalla Guinea e mai arrivato in Europa, e il bisogno di Amets, in cerca di un sollievo da dare, ma anche da ricevere. Sì, perché, per chi si prodiga nel recare sollievo, farlo non è avvertito mai come obbligo, ma come bisogno.

Due bisogni diversi quindi, ma anche così vicini, uniti entrambi dalla voglia di riempire un vuoto e sanare una ferita. Ma ciò potrà accadere solo a chi è disposto a capire che l’empatia e un po’ di affetto sono beni di prima necessità. Anzi, sono gli ingredienti fondamentali per fare esperienza di un sollievo che, coinvolgendo tutte le dimensioni della persona e la sua stessa dignità, non va mai in una sola direzione: da chi ha a chi non ha. Il sollievo è davvero tale solo in un contesto di reciprocità.

Avvertire che, mentre si è sollevati, si reca sollievo contribuisce ad andare oltre il pensiero di Nietzsche su questo tema. Per il filosofo tedesco non c’è sollievo che tenga. Il dolore esige solo resa e risentimento nei confronti della vita. Spingendo a fermare lo sguardo laddove fa più male, laddove si trovano le umane troppo umane miserie, bassezze e autoinganni. In questo condivide, ma con motivazioni del tutto differenti, la tendenza coltivata dall’arte medievale, che rappresenta prevalentemente figure composte e rassegnate alla sofferenza.

Solo col romanticismo – e soprattutto con le più straordinarie opere d’arte dell’ultima parte dell’Ottocento e dei primi del Novecento – il dolore interiore, la malinconia e il male di vivere ritrovano un loro posto nell’arte. Tutte nell’atteggiamento di chi invoca sollievo da una condizione di sofferenza. Presente in alcune tra le migliori opere di Van Gogh e di Munch. Come non ricordare, del primo, la litografia del 1882 sulla quale egli stesso incide a chiare lettere Sorrow (dolore) e il dipinto Campo di grano con volo di corvi; e, del pittore norvegese, il suo dipinto più famoso L’urlo?

In entrambi i casi, è riduttivo non vedere chiara una richiesta di sollievo: invocazione piena di speranza e voglia di non soccombere. Una risposta, è impossibile trovarla nella violenza di parole pronunziate sempre più spesso con volume insopportabilmente alto e sprezzante, per coprire il deserto di idee e di valori.

in “Il Sole 24 Ore” del 23 giugno 2024

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