I nuovi barbari dentro i confini dell’Europa

PAOLO RUMIZ

I confini sentono il mondo. E qui, su questo confine, sento che la mia Europa d’Occidente comincia a somigliare ai Balcani, si presenta in ordine sparso all’appuntamento con la Storia. Tornano le nazioni, lasciano crescere l’odio etnico, mentre a Bruxelles c’è chi tace e lascia fare. In un resort termale della lontana Turingia, là dove Arminio massacrò le legioni, succede che industriali e politici di destra, tra un bagno turco e una cena, pianifichino in segreto la cacciata di tredici milioni di stranieri, e poi — una volta scoperti — la promettano in parlamento, senza fare una piega, come punto chiave del loro programma politico. È la loro Soluzione finale, la loro Conferenza di Wannsee.

Capita che a Parigi il presidente del Rassemblement National, Jordan Bardella, dichiari di lavorare contro «il colpo di stato federalista » in atto e per ripristinare «la voce della Francia in Europa «in nome di una “battaglia di civiltà”. Avviene che a Roma camerati in nero su nero, schierati, salutino a braccio teso i loro “martiri” e tuonino “Presente!”, e che la polizia non intervenga, mentre un passante mormora “ragazzate”.

Persino la Grecia, culla del pensiero occidentale, vara leggi liberticide e vede crescere in parlamento partiti antieuropei di estrema destra. L’Ungheria inaugura la “democrazia illiberale”, permette raduni nazisti a celebrazione della resistenza della Wehrmacht contro i russi nel 1944, e lascia che la gente chieda in piazza l’impiccagione di una giovane italiana, messa in galera semplicemente per aver affrontato gli uomini neri.

In Olanda, il Paese di più antica tradizione democratica del mondo, il leader del partito xenofobo Geert Wilders, trionfatore alle elezioni, si dichiara pronto a un referendum sull’uscita dei Paesi Bassi dall’Unione europea. Ma le nazioni stesse si frammentano: in Belgio, il partito dell’estrema destra fiamminga propone una consultazione a favore dell’indipendenza fiamminga e la spaccatura del Paese.

È un contagio di tendenze centrifughe. La Spagna non è mai stata così lacerata, la lotta ora è tra i favorevoli e i contrari all’indipendenza della Catalogna. I Paesi Ue dell’ex Patto di Varsavia seguono la tendenza, con gli ultranazionalisti romeni saliti al venti per cento dei voti e i socialisti bulgari intenzionati a costruire una coalizione con i partiti nazionalisti e filorussi. E mentre Putin, il postcomunista, foraggia e benedice dal Cremlino i sovranisti d’Europa, nell’aria si sente il ritorno di Trump, il grande imprevedibile, l’uomo capace di chiudere in un giorno il confine col Messico, di firmare l’amnistia per i cowboy che in suo nome hanno fatto a pezzi il parlamento, e magari di telefonare immediatamente a Putin per chiudere la “faccenda” in Ucraina.

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Scendo in cucina, accendo il bollitore, poi metto legna sul fuoco. In momenti così, ho bisogno di Hans. È probabile che anche lui non dorma. C’è telepatia fra noi. Lui sa come togliermi l’ansia. Sa ridarmi speranza. Giorni fa mi ha spedito immagini stupende. Enormi folle antifasciste in marcia per la democrazia. Le riguardo. Allargano il cuore. Trecentomila persone a Monaco, duecentocinquantamila a Berlino, duecentomila ad Amburgo.

La posta in gioco è epocale. Fiaccolate, concerti, slogan. «Nie wieder ist jetzt», il mai più è ora, per dire che il “mai più” dell’Olocausto va rilanciato oggi, con urgenza. Perché il pericolo è oggi. Hans è il mio fratello tedesco di elezione. Capita che mi chiami, prima delle otto del mattino, andando a piedi al lavoro. Fa quella strada ogni giorno, con la pioggia, la neve o il sole. È il suo modo di svuotare la mente. Conosce tutti i miei segreti, come io i suoi. Mi aggiorna su tante cose e, mentre parla, sento in sottofondo il suo passo sulla ghiaia. Guardo e riguardo quelle immagini straordinarie. C’è anche una mappa completa delle manifestazioni, con una densità incredibile di cerchietti. Per la prima volta, proteste anche nei piccoli centri. Landau, Hildesheim, Bad Segeberg.

Succede qualcosa di grande. Gente mai vista prima esce dal letargo per fare politica. Si sveglia anche la brumosa campagna tedesca.

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Ticchettio sulle tegole. Gocce che aumentano di frequenza, intessono un ritmo dispari nel camino della stufa. Com’è felice Hans nel raccontarmi la sollevazione del suo popolo! Anch’io lo sono. Ma tra la sua e la mia felicita c’è da subito una differenza. Anzi, due. La prima, umiliante per me, è che in Europa, Germania a parte, quasi nessuno più marcia “per” la democrazia. La seconda è che Hans non ha conosciuto la guerra dei Balcani, e io sì.

La dissoluzione jugoslava è un paradigma dal quale mi è impossibile prescindere. Chi c’è stato sa che i Balcani sono la nostra pancia, il principio e la fine di tutto quello che accade in Europa. E io c’ero, il 5 aprile del 1992 a Sarajevo. Si sparava già qua e là, in Bosnia, quando, quel 5 aprile, un fiume incontenibile di folla riempì le vie del centro per chiedere la pace. Centomila persone. Un flusso che parve capace di travolgere ogni cosa. In quel momento esultai e dissi a me stesso che non poteva esserci guerra se l’opposizione della società civile era così massiccia e consapevole. E invece bastarono dei cecchini sul tetto dell’Holiday Inn per fare sei morti, seminare il panico, disperdere la folla e dare inizio all’assedio più lungo dell’era contemporanea.

Ho addosso, per scaldarmi, dei calzettoni bosniaci di lana grezza. Sono un regalo di Rezak Hukanovi, un bosgnacco uscito miracolosamente vivo dal campo di tortura serbo di Omarska e autore di un diario agghiacciante che racconta quell’esperienza. Mi chiedo spesso come in quell’uomo, che porta ancora sul corpo i segni del suo calvario, non vi sia traccia di rancore.

La Bosnia mi ha aiutato a capire cose essenziali del mondo. Per esempio, come la macchina irrazionale dell’odio venga costruita razionalmente da manipolatori al servizio di poteri innominabili, e come l’uomo manipolato possa ritornare alle caverne. Lì mi sono reso conto che le guerre possono scoppiare anche dove sembra impossibile, e che lo scontro tra nazioni porta sempre a una disfatta delle medesime e al trionfo del capitale straniero. Anche per questo so che stanotte non riuscirò a dormire.

Nell’aprile del ’92, a Sarajevo, un cordone di trincee era già stato scavato dal nemico attorno alla città. Carri armati arrivavano da ovunque. Ma la città non vedeva. Era incredula, si ostinava a pensare che non sarebbe accaduto. Credeva alla neutralità dell’esercito federale. “Imbecillità del bene” avevo chiamato quel fatale candore di fronte al pericolo. Lo stesso che ci contraddistingue oggi.

Solo otto anni prima, Sarajevo aveva ospitato una delle più belle Olimpiadi invernali della Storia. Migliaia di giovani si erano offerti volontari per farle riuscire nel segno della fratellanza tra le genti. Frastornato da tanto calore e dalla magia di una città dove convivevano chiese, moschee e sinagoghe, il presidente del Comitato olimpico internazionale disse: «Questa è la prima Olimpiade organizzata da un popolo intero».

Tre anni dopo, anche alle Universiadi di Zagabria vidi un trionfo di gioventù, vita e allegria. Indelebile l’immagine finale: una corsa di mille rag azze in larghi vestiti colorati gonfiati dal vento. Non sapevo che, in quelle stesse ore, uomini usciti dal buio pianificavano lo smembramento della Jugoslavia.

Questo a te, questo a me. Quello, facciamo a metà. Le bande rivali già si armavano, d’accordo fra loro, all’insaputa della gente. Sangue doveva esserci, lo sapevano tutte le parti in causa. E sangue sarebbe stato, per nobilitare una divisione che, in realtà, aveva come unico scopo la rapina. Da allora so che il male trova il suo miglior nascondiglio proprio tra gli uomini di buona volontà.

in “la Repubblica” del 20 maggio 2024

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