Filosofia. Seneca: “De brevitate vitae”

IVANO DIONIGI

La riflessione sul tempo è tra gli aspetti più affascinanti del pensiero di Seneca, come spiega Dionigi, curatore di un volume che ripercorre la fortuna di Seneca nella cultura europea dal Medioevo al Novecento. La cultura antica, che non ha mai creduto a secondi tempi e riscatti ultraterreni, avverte con particolare inquietudine il tema della brevità della vita; Seneca reagisce a questa inquietudine insistendo sulla necessità di concentrare ogni cura sul presente, l’unico tempo che davvero ci appartiene, di farsene padroni, perché non ci venga sottratto da cose e persone, di guardare alla qualità della vita e non alla sua durata.

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Centrale in Seneca è il tema del tempo: disseminato in tutte le opere filosofiche, esso inaugura l’epistolario (l’intera prima lettera è un piccolo saggio sull’argomento) e impegna un intero dialogo, il De brevitate vitae. Il tempo è l’altra faccia della morte (Epist. 1,2 quem mihi dabis qui aliquod pretium tempori ponat, qui diem aestimet, qui intellegat se cotidie mori?, «trovami uno che attribuisca qualche valore al tempo, che apprezzi il giorno e capisca che quotidianamente si muore») e l’unico vero nostro possesso (1,3 omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est; in huius rei unius fugacis ac lubricae possessionem natura nos misit, «nulla, Lucilio, ci appartiene; solamente il tempo è nostro; la natura ci ha posto in possesso di que- sta sola cosa»).

Nel De brevitate vitae – smentendo il dettato del titolo – Seneca afferma che la vita è lunga (2,1 vita […] longa est), in dichiarata polemica non solo con le opinioni del vulgus ma anche con la dottrina della scuola aristotelica, la quale accusava la natura di ingenerosità (malignitas) per averci dotati di una vita troppo breve (1,2 aetatis illam animalibus tantum indulsisse ut quina aut dena saecula, homini in tam multa ac magna genito tanto citeriorem terminum stare, «la natura ha concesso agli animali di poter vivere cinque o dieci generazioni, e all’uomo, nato a tante e così grandi cose, è fissato un termine tanto più breve»).

La tesi di Seneca poggia su due principi: la concezione qualitativa del tempo e la signorìa del presente. Ciò che conta è diu vivere e non diu esse, vivere a lungo e non stare al mondo a lungo (Brev. 7,10), è la qualità della vita e non la quantità (Epist. 70,5 cogita semper qualis vita, non quanta sit; 101,15 quam bene vivas refert, non quam diu). Il saggio stoico sa bene che non c’è differenza tra un giorno e un secolo (Epist.

101,9 stabilita mens scit nihil interesse inter diem et saeculum); signore del tempo, egli vive l’istante come assoluto. Ciò che invece caratterizza la nostra vita – e per cui siamo portati a credere che essa sia breve – è l’occupatio, «l’affaccendamento», il correre dietro a mille occupazioni. Insistita e severa è nel De brevitate la censura degli occupati («affaccendati», “alienati” diremmo noi), la cui vita è brevissima (10,1 brevissimam esse occupatorum vitam).

Il nostro bilancio (3,2 computatio) – argomenta Seneca – è decisamente in rosso. Calcoliamo il tempo sottrattoci dai creditori, dai patroni, dai clienti, dalle donne, dai litigi con la moglie, dai castighi dei servi, dalle malattie, da un vano dolore, da una stolta gioia, da un’avida passione, da un’allegra compagnia: capiremo come nessuno rivendica per sé la sua libertà (2,2 nemo se sibi vindicat) e quanto poco ci è rimasto di nostro (3,3 quam exiguum tibi de tuo relictum sit). Sorprendenti e sconfortanti sono soprattutto la dissipazione e la disistima del tempo: «mi fa sempre meraviglia vedere alcuni chiedere tempo e chi ne è richiesto così arrendevole […]; lo si chiede come se fosse niente, o si dà come fosse niente. Si gioca con la cosa più preziosa di tutte […]; ne usano senza risparmio, come fosse gratis» (8,1-2). Così conclude: «nessuno ti renderà gli anni, nessuno ti restituirà a te stesso; andrà il tempo della vita per la via intrapresa e non tornerà indietro né arresterà il suo corso […]. Tu sei affaccendato (occupatus), la vita si affretta: e intanto sarà lì la morte, per la quale, voglia o no, devi aver tempo» (8,5). […]

L’altro principio, su cui poggia l’idea senecana di tempo, è la centralità del presente. L’insegnamento stoico per cui «solo il presente esiste» […] è da Seneca tradotto nell’imperativo categorico «vivi senza indugio» (9,1 protinus vive); potremmo definirlo il carpe diem di uno stoico. Il sapiens stoico sperimenta l’unità e la simultaneità del tempo; addirittura egli vive l’indipendenza dal tempo (“ucronìa”), dove concentrazione massima e dilatazione massima coincidono (15,1 longam illi vitam facit omnium temporum in unum conlatio). Il maggior ostacolo all’esperienza positiva del presente è l’exspectatio, l’«attesa», la quale mentre dipende dal domani perde l’oggi (9,1 maximum vivendi impe- dimentum est exspectatio, quae pendet ex crastino, perdit hodiernum). Il maggior spreco del tempo è fare programmi a lunga scadenza e così differire

la vita (9,1 cogitationes suas in longum ordinant; maxima porro vitae iactura dilatio est). Infatti nel futuro, percepito come insensata proiezione del presente, si annidano i disvalori della cupido e del timor; il saggio al contrario né desidera il domani né lo teme (7,9 nec optat crastinum nec timet). È da ritenere che una causa specifica della cosiddetta attualità di Seneca vada individuata proprio nella soluzione del De brevitate vitae, la quale resiste al tempo e alle mode.

I. Dionigi, Seneca nella coscienza dell’Europa, Bruno Mondadori, Milano 1999, pp. XXII-XXV