Contraddizioni e ingiustizia di una cittadinanza negata

FLAVIA PERINA

«Sono nati qui, si chiamano Patrizia, Fabio, Aurora, magari Mohamed o Karima, stanno coi nostri figli, parlano la lingua dei nostri figli, sono esattamente come i nostri figli: italiani». In queste strepitose due righe Mattia Feltri ha sintetizzato al tempo stesso l’ignominia della Repubblica italiana, che tratta da esuli in patria centinaia di migliaia di bambini stranieri solo formalmente, e la modestia culturale di una destra incapace di andare al di là della burocrazia dei passaporti e prigioniera di slogan anti-immigrati, magari comprensibili vent’anni fa ma oggi del tutto fuori dalla realtà.

Il rilancio della battaglia sulla “quota immigrati” da parte di Matteo Salvini è in aperta contraddizione con una delle principali missioni che il governo si è dato, almeno a parole: quella di scuotere antiche egemonie culturali per promuovere la nuova era dell’ideologia italiana. Non c’è luogo migliore della scuola dove lavorare per questo obbiettivo. Non c’è modo peggiore di perseguirlo della discriminazione programmatica dei 900mila minori figli di stranieri, di cui 600mila nati in Italia e molti altri arrivati tra noi da piccolissimi: bambini e ragazzi che non conoscono altra patria che l’Italia, che parlano non solo l’italiano ma spesso pure i dialetti.

La specifica vicenda storica della destra italiana, i “figli di un dio minore” come spesso si sono rappresentati, dovrebbe essere un potente antidoto a queste sciocchezze. Chi ha fatto esperienza del ghetto dovrebbe conoscerne gli esiti fatali e farne un tabù assoluto ogni volta che la tentazione si ripresenta, anche per motivi pragmatici. La scuola è la prima istituzione con cui un cittadino si confronta: alimentare in una folla di ragazzini la sensazione di essere ospiti sgraditi del luogo che abitano non presenta vantaggi né per il presente né per il futuro. L’elogio del merito, altra stella polare del racconto conservatore, in fondo è basato su questo: tutti uguali nel diritto all’istruzione, tutti giudicati per i risultati e per l’impegno, non per altro.

La vecchia destra aveva ben chiari questi paletti. Fece, a suo tempo, molte battaglie persino sull’obbligo di grembiule o di divisa, ritenendo che la scuola dovesse azzerare alle radici, anche nell’estetica, le differenze di censo e provenienza per rendere chiaro il fatto che i privilegi o gli svantaggi sociali si fermano alla porta della classe. Risulta assai difficile tenere insieme questa visione con l’idea che qualcuno sia trasferito dalla sezione o addirittura dall’istituto che frequenta in virtù di un dato “politico”: la qualifica di non- italiano che leggi fuori dal tempo gli hanno appiccicato addosso e il rispetto di un’astratta quota che distingue gli studenti in base allo status anagrafico.

È incredibile che la desta patriottica non riesca a vedere le contraddizioni del discorso “censitario” rilanciato da alcuni suoi esponenti. In nome di pregiudizi poco coerenti con la sua storia rinuncia, tra l’altro, a una grande occasione: trasformare la scuola in un autentico laboratorio di italianità, dove respirino insieme i valori della nostra cultura e della nostra Costituzione, sradicando ogni tentazione discriminatoria e offrendo sostegno a chi zoppica in modo orizzontale, a prescindere dal passaporto dei genitori. Costruire nuovi italiani anziché nuovi paria della Repubblica, cittadini tutti interi anziché esuli nella nazione dove vivono e vivranno. Quale prova migliore per il fronte identitario, se davvero ci crede?

in “La Stampa” del 31 marzo 2024

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