“Ha ragione il Capo dello Stato, la politica ha dimenticato i deboli”

GIOVANNI MARIA FLICK, intervistato da ALESSANDRO DI MATTEO

Il discorso di fine anno del Capo dello Stato è piaciuto molto a Giovanni Maria Flick. Da giurista, ex ministro, presidente emerito della Corte costituzionale, ha ascoltato molti presidenti e ricorda che «c’era un tempo in cui il messaggio di fine anno sembrava l’oroscopo, ciascuno ci trovava dentro quello che gli andava bene». Quest’anno è un po’ diverso, sottolinea, «anche stavolta ce n’è per tutti, ma nel senso che c’è un pesantissimo richiamo alla responsabilità di ciascuno di noi». Una ramanzina per tutti, insomma: «Sì. Il presidente chiede a ciascuno un impegno, parla a tutti», anche se c’è anche una responsabilità della politica che ha «perso la capacità di ascoltare», quella dote fondamentale che proprio Mattarella ha richiamato nel suo discorso. La politica, dice Flick, «ha dimenticato i deboli, i diversi».

Il capo dello Stato richiama i cittadini al valore della partecipazione. La crisi della democrazia è un fenomeno reversibile?

«Non è irreversibile, se c’è l’impegno a muoversi. Il presidente chiede a ciascuno un impegno, parla a tutti. È fondamentale la partecipazione attiva alla vita civile, innanzitutto con l’esercizio del diritto di voto, che è esercizio di libertà. Stiamo affrontando una mutazione globale: tecnologica, ecologica e – prima di tutto – culturale. Rischiamo che le connotazioni ben note dell’agire umano – la violenza, il profitto – tendano a far sì che la transizione tecnologica abbia la prevalenza e non incontri limiti perché rispecchia solo ambizioni degli oligarchi o dei magnati che gestiscono le nuove tecnologie».

Il presidente richiama il valore della comunità. C’è anche un problema culturale da risolvere? Un eccesso di individualismo?

«Certo, eccome. È proprio questo il discorso: siamo vittime di questo distacco progressivo tra momento individuale e momento istituzionale. Siamo un Paese che ha raggiunto ottimi risultati quando, dopo una guerra rovinosa, siamo riusciti a ricostruire dalle macerie. E come lo abbiamo fatto? Coltivando un discorso di convivenza, partendo da una Costituzione che poneva a suo fondamento alcuni principi fondamentali: solidarietà, uguaglianza, libertà, laicità, rifiuto della guerra e pari dignità sociale. Ma più di questo la Costituzione non può fare, serve un impegno collettivo».

Cosa può fare la politica per riavvicinare i cittadini alle istituzioni? Ha notato che il presidente non ha citato il tema delle riforme istituzionali?

«Certo, perché il problema non è tanto quello delle riforme istituzionali o costituzionali, che tra l’altro possono essere fatte per mille motivi, tra cui quello di consolidare l’attuale maggioranza. Il problema si risolve con una riforma di tipo elettorale che garantisca alla gente che votare serve a qualcosa. Questo non significa una riforma elettorale che porti uno schieramento dritto filato a una maggioranza assoluta. Non entro nel merito, ma serve un meccanismo che metta da parte quei premi di maggioranza assurdi che un tempo erano legati al concetto di “legge truffa” e che adesso ritornano all’orizzonte».

Quanto incidono i social network, in questa disarticolazione del senso di comunità?

«Temo che incidano molto. In questi giorni viviamo una situazione abbastanza interessante ma complessa: la lite negli Usa tra il New York Times e società che sviluppano un programma di intelligenza artificiale. Il giornale dice: non potete continuare a rubarci l’informazione che noi produciamo e che voi poi usate e fate pagare come se fosse vostra. Mi colpisce che sia prevalente soltanto l’orientamento a guardare la dimensione economica, il profitto, e poco l’informazione in sé. Ci si preoccupa poco del fatto che si usino i social e l’Intelligenza artificiale per condizionare l’opinione pubblica. Io preferisco tutto sommato la concezione europea che proprio in questi giorni guarda alla “riserva umana”: quali garanzie e limiti porre a sviluppo della tecnologia per evitare che occupi spazi che incidono sulla libertà umana».

Partiti e corpi intermedi non riescono più a svolgere il loro ruolo, in passato smussavano i conflitti ora sembrano a rimorchio degli umori dell’opinione pubblica.

«Non solo vanno a rimorchio ma spesso esasperano quelle tensioni. Pensiamo al tema dell’autonomia differenziata: ma perché dobbiamo aprire una concorrenzialità tra le regioni, riconoscendo una serie di autonomie che creano più problemi di quelli che risolvono? Quando si dice che l’Italia è una Repubblica unita nella quale si favoriscono le autonomie locali si dice che serve un punto di equilibrio tra unità del paese e esigenze delle realtà locali. Il rischio è che altrimenti venga meno quello spirito di coesione e unitarietà che è alla base di una comunità».

Pesa anche la consapevolezza che la politica a livello nazionale ormai ha sempre meno potere, che i centri decisionali sono ormai altrove?

«Incide tantissimo. Dobbiamo capire se non è il caso di mettere mano a riforme che portino a un’Europa di tipo federale, non di Stati come è adesso, altrimenti l’Europa rischia di rimanere al ruolo “secondario” di occuparsi di regole».

in “La Stampa” del 2 gennaio 2024

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