«Stati nazione al tramonto, il potere non è nelle mani della politica»

PIERO BASSETTI, intervistato da DIEGO MOTTA

Piero Bassetti: abbiamo un gran bisogno di classe dirigente. L’intelligenza artificiale e la rivoluzione digitale stanno cambiando il mondo più di Gutenberg e dell’invenzione della stampa.

A quasi 95 anni, Piero Bassetti studia Elon Musk e l’intelligenza artificiale. «All’inizio degli incontri con i miei collaboratori, faccio conversazione in inglese con i sistemi di Ai. Sono molto istruttivi: raccontano il futuro, con cui anche il potere sta facendo i conti. La rivoluzione digitale sta cambiando il mondo più di Gutenberg e dell’invenzione della stampa». Lunedì la Fondazione che Bassetti presiede festeggerà trent’anni, due giorni prima del suo compleanno.

Presidente Bassetti, nel 2015 lei scriveva per Marsilio un Manifesto per un futuro glocal dal titolo “Svegliamoci Italici!”. Otto anni dopo, secondo il Censis, la società italiana sembra affetta da sonnambulismo diffuso e il nostro è diventato un Paese dalle passioni tristi, ripiegato su se stesso. Perché non è scattato nulla, nel frattempo?
Il mio appello era ispirato da una prospettiva strutturale, in particolare dall’invecchiamento degli schemi organizzativi della politica. Già nel 2015 si vedeva che quel mondo stava saltando a causa dell’avvento della Rete. E poi c’era quella definizione “italici”, che è molto più ampia di “italiani”. Gli italici sono centinaia di milioni, non sono solo i nostri connazionali, registrati in base al passaporto o all’iscrizione all’Aire, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero… Siamo molti di più, perché il genio italico ha attraversato e contagiato il pianeta. Resta valida l’altra metà del mio messaggio: bisogna svegliarsi, appunto. Pensi soltanto al tema della cittadinanza ai ragazzi stranieri che vivono qui perché sono nati in Italia e stanno studiando, da immigrati, nelle nostre scuole. Cosa stiamo aspettando a farli diventare italiani? Roma è diventata Roma solo perché seppe dare cittadinanza a tutti.

Non crede di andare controcorrente rispetto all’avanzare di sovranismi e populismi che vanno per la maggiore?
Stanno saltando i fondamentali e non ce ne rendiamo conto. I confini nazionali non hanno più senso. Sui media si parla di “fuga dei cervelli”, ma perché dare un’accezione negativa al fenomeno? Non è una fuga ma è un movimento, che finirà per creare nuova classe dirigente. I miei nipoti parlano inglese e italiano, i miei pronipoti parleranno solo inglese. E’ un segno positivo dei tempi. La fisica diceva che c’è lo spazio e c’è il tempo: il problema oggi è lo spazio-tempo, che altro non è che la velocità. Prenda il Frecciarossa: non è un treno, ma una piattaforma che si muove.

Se non esistono più i confini, non esistono più gli Stati.
L’idea dello Stato nazione è al tramonto. Il potere ormai è uscito dalle mani di chi faceva regole e norme, cioè i governi, ed è entrato nelle mani di chi fa innovazione, cioè la tecnologia. E l’innovazione, come ho detto tante volte, è la realizzazione dell’improbabile. La profezia oggi è il sapere, la conoscenza. Non sappiamo niente di Elon Musk e non sappiamo soprattutto cosa sa lui di noi. Però dobbiamo farci i conti e paradossalmente ad assumersi la responsabilità del cambiamento dovrà essere la politica, che invece è rimasta più indietro di tutti.

Ci saranno stati degli innovatori anche in politica, non crede?
Quando Mario Draghi pronunciò il suo «whatever it takes», fece innovazione. Silvio Berlusconi a suo modo fu un innovatore e lo dico da antiberlusconiano. Il regionalismo era un’innovazione, quello delle origini e non certo quello allo studio ora. Ero amico di Gianfranco Miglio, all’inizio la Lega era una cosa seria. Adesso nei partiti, in tutti i partiti, manca il pensiero e si vede. Per capire chi conta davvero oggi, bisognava ascoltare qualche settimana fa la rettrice del Politecnico, quando diceva: «Noi non ci occupiamo di intelligenza artificiale – diceva -. Noi siamo l’intelligenza artificiale».

Sta dicendo che la nuova classe dirigente non verrà dalla politica?
Abbiamo un gran bisogno di idee e di classe dirigente. Lo dico anche ripensando alla mia esperienza. La mia vita politica comincia il 25 aprile 1945, dopo Piazzale Loreto, e finisce, almeno a livello parlamentare, nel 1983 quando scrivo a Nilde Jotti per dimettermi da deputato e le dico: «Guarda, da qui non passa più niente». Non passa più niente di quel che interessa la vita reale delle persone, intendevo. Quando ci fu Piazzale Loreto, con Mussolini e la Petacci, noi eravamo già in cerca di una classe dirigente. C’erano gli Alcide De Gasperi, i Palmiro Togliatti, i Ferruccio Parri. A casa Falck prese forma la Democrazia Cristiana. Dopo la Liberazione, sarebbe arrivata la Costituzione. Abbiamo fondato i partiti, le scuole di partito. Abbiamo avuto preti straordinari, a partire da quelli che nascondevano gli ebrei durante la Resistenza. Non esisteva politica senza società civile e ci si arricchiva lavorando, portando classe dirigente fuori dalla politica e dentro la società e l’impresa. Oggi lo Stato è solo il participio passato del verbo stare. Per aggiornarsi e adeguare la propria missione, dovrà affrontare il travaglio del sapere e delle nuove intelligenze.

Quali sono le sfide più urgenti?
La scuola non è più a passo coi tempi: a fianco della lezione di greco e dello studio dei classici dovremmo mettere ore di digitalizzazione. Lo sviluppo di un territorio andrà interpretato in modo dinamico: pensi allo spopolamento, non può essere letto se non alla luce dei flussi di mobilità. La vita di una persona non è determinata da dove sta, ma da dove va. La democrazia sta cambiando: non funziona se gli elementi che ne garantiscono il funzionamento non sono più rispettati. E in questo momento all’opinione pubblica non stiamo consentendo di scegliere meglio, ma peggio.

in Avvenire 16 dicembre 2023

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