Giovani e formazione professionale. Non uno di meno

BRUNO BIGNAMI

Nel 1999 usciva nelle sale il film cinese Non uno di meno, diretto dal regista Zhang Yimou e vincitore del Leone d’oro a Venezia. Protagonista è una giovanissima insegnante di scuola rurale che riceve il mandato di non perdere nessuno dei suoi alunni. Missione compiuta, ma solo in un reciproco dono di insegnamento: la maestra ci mette l’anima per non perdere nessuno e i bambini le insegnano a non sprecare gessetti. La cura per le cose è premessa indispensabile per un’autentica cura delle persone. Un passaggio di ecologia integrale ante litteram. Il titolo del film può aiutare ad avere uno sguardo più completo sulla formazione al lavoro nel nostro tempo.

«Non uno di meno» è il contrario della cultura dello scarto che, come ricorda Papa Francesco in Laudato si’, 22, «colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura». C’è sempre qualcuno di troppo. Anche la società è affascinata da questa logica perversa, ben presente a esempio nella cultura della meritocrazia tanto in voga e osannata in questo tempo. Non possiamo tacere il messaggio forte e chiaro che proviene dall’esortazione apostolica Laudate Deum: «Si incrementano idee sbagliate sulla cosiddetta “meritocrazia”, che è diventata un “meritato” potere umano a cui tutto deve essere sottoposto, un dominio di coloro che sono nati con migliori condizioni di sviluppo. Un conto è un sano approccio al valore dell’impegno, alla crescita delle proprie capacità e a un lodevole spirito di iniziativa, ma se non si cerca una reale uguaglianza di opportunità la meritocrazia diventa facilmente un paravento che consolida ulteriormente i privilegi di pochi con maggior potere» (32).

Chissà perché il «qualcuno di troppo» è normalmente il povero che non ha i mezzi, chi nasce e cresce nelle periferie, chi ha sofferto fragilità familiari, chi non ha ricevuto un’educazione adeguata, chi proviene da aree interne abbandonate e senza servizi, chi non ha conosciuto l’amore dei genitori. Il qualcuno che è di troppo nel lavoro diventa “esubero” da lasciare a casa perché non serve più oppure si tratta del giovane che ha titoli di studio troppo elevati da non riuscire a trovare spazio. La parabola della pecorella smarrita nella nostra società è facilmente ribaltata, per cui pochi si pongono il problema della dispersione scolastica e dell’elevato numero di Neet. Si accetta che qualcuno vada perduto con una rassegnazione che fa paura. Un vero educatore non dovrebbe mai accettare che qualcuno sia escluso, ma dovrebbe far arrivare al giovane demotivato o in difficoltà il messaggio che la sua vita gli sta a cuore.

A cento anni dalla nascita di don Lorenzo Milani, la scritta I care posta nella scuola di Barbiana è quanto mai attuale. Mi sta a cuore ogni esistenza. Mi sta a cuore ogni povertà. Mi sta a cuore ogni problema. Mi sta a cuore ogni difficoltà. Anzi, proprio dove si avvertono gravi mancanze è ancora più necessario un investimento educativo e formativo. Eppure lo sappiamo: per ogni Parco Verde su cui accendiamo i riflettori c’è un altro quartiere a pochi chilometri di distanza che rimane a luci spente. Non si può dimenticare la dura realtà anonima di periferie abbandonate a se stesse, dove i percorsi scolastici o professionalizzanti possono rimanere l’unico lumicino acceso nel buio della disperazione, della depressione e dell’ingiustizia sociale.

La cultura dello scarto ha pervaso tutto e tutti, è entrata nei modi di ragionare e si è insinuata nei modi di selezionare le persone per appartenenze o preferenze. È logica tanto perversa quanto violenta, soprattutto se finalizzata a penalizzare le giovani generazioni. C’è bisogno di un cambio di passo, che ci compete in quanto credenti appassionati di formazione professionalizzante e di giovani. C’è un fondamento biblico alla logica del «non uno di meno» e trova luce nel discorso di addio di Gesù nel Vangelo di Giovanni: «Nessuno di loro è andato perduto» (17, 12). La cura di Dio Padre per ogni creatura si manifesta nell’amore di Cristo che offre la sua esistenza perché tutti abbiano la vita, «e l’abbiano in abbondanza» (Giovanni, 10, 10). Il dono per tutti, la salvezza per ogni creatura, la ricerca appassionata per la pecorella smarrita, per la moneta perduta o per il figlio che si è allontanato da casa (Luca, 15) sono frutto della stessa semina di misericordia. Così il nostro Dio.

La logica del «non uno di meno» può rivitalizzare ambienti e organizzazioni educative. Possiamo leggerlo con tre sottolineature. La prima è riferita alle persone: l’opportunità di formarsi al lavoro è rispondere alla propria vocazione che va offerta a tutti i giovani. L’attenzione a tutti significa anche avere il coraggio di personalizzare i percorsi formativi, come accade in altri paesi europei. Quante volte un giovane disimpegnato sul fronte scolastico ha dimostrato passione per un lavoro manuale! Quante volte un adolescente svogliato ha trovato in un percorso professionalizzante la risposta al vuoto esistenziale! Quante volte una famiglia sconfortata ha scoperto nella bravura di un insegnante o nella cura personale di qualcuno motivo di sollievo! Perché questo avvenga bisogna passare dall’indistinto all’unicità. Non esiste la categoria giovani o adolescenti: esistono i volti di Laura, Marco, Loris, Monia. La loro storia personale, che ha alle spalle anche condizionamenti educativi legati alla provenienza, deve essere letta come punto di partenza per un cammino, mai come un handicap per etichettare e generare stigmi. Ciò significa coltivare la dimensione vocazionale, dare ascolto della loro coscienza e privilegiare l’accompagnamento che fa fiorire. Come scrive il gesuita padre Francesco Occhetta, riferendosi alla Costituzione, «lavorando, la persona si costruisce e cresce anche spiritualmente, perché per i costituenti il lavoro era inteso come “atto creatore”». Tutto ciò porta a elevare il discorso rispetto alle pur legittime discussioni circa il salario minimo e il reddito di cittadinanza.

Il secondo riferimento è ai territori: non ci si può rassegnare a definire alcuni territori di serie A e altri di serie B. Lo dobbiamo dire ad alta voce nel divario tra Nord e Sud, dove la periferia diventa svantaggio dal punto di vista delle opportunità sia formative sia sociali. «Non uno di meno» vale anche per i territori. Le aree interne in Italia sono diventate talora aree da saccheggio verso le città metropolitane, aree discarica, aree di depressione sociale e formativa. In realtà, dobbiamo pensare in sinergia e in stretta connessione il centro e le periferie. Se c’è l’uno è grazie all’altro. La cura dell’uno è possibile solo se c’è cura dell’altro. Il principio dell’ecologia integrale, che Francesco ha ben promosso in Laudato si’, vale anche nel campo della formazione professionale. Alcuni territori hanno una loro vocazione industriale, agricola, digitale che va compresa in un disegno ampio di coordinamento con le altre aree circostanti. Serve un grande “sì” rigenerativo al lavoro. Non funziona la logica escludente di chi genera comfort zone valide per chi sta bene e solitudine per chi decide di rimanere nel proprio territorio.

La terza sottolineatura è riferita ai posti di lavoro e alle imprese. I fenomeni del mismatch tra domanda e offerta, le dimissioni dal lavoro, il precariato prolungato non si possono sottovalutare. Sono segnali di trasformazioni culturali in corso, ma esigono anche un ascolto specifico. «Non uno di meno» significa che le richieste di lavoro sono anche domande di competenze su più livelli (abilità lavorativa, doti umane, soft skill) a cui si deve rispondere. Ma «non uno di meno» si riferisce anche alla necessità di non tradire le aspettative di vita e i desideri che abitano nel profondo del cuore dei giovani. Possiamo oggi continuare a dire che il lavoro è tutto per la vita? Penso che abbiamo bisogno di considerarlo in armonia con le altre dimensioni fondamentali, quali la famiglia, la spiritualità, la cultura, l’impegno sociale, la passione sportiva.

«Non uno di meno» diventa allora uno stile e un obiettivo su cui impegnarsi. Ne va della capacità di essere padri e madri del futuro.

in L’Osservatore Romano, 16 ottobre 2023

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